Mi sveglio presto, praticamente all’alba per i miei standard.
Ho un volo Ryanair da prendere, che mi porterà in Puglia, dove devo improrogabilmente tornare per ragioni personali, non per piacere, insomma per un lutto, voglio dire, non posso non andare.
Esco di casa con la valigia, vado al bar accanto, ordino un caffè nel tentativo di riprendermi dal coma narcolettico. Poi torno fuori, chiamo un taxi, che mi porterà alla partenza delle navette per Orio al Serio. Fumo una sigaretta, anche se sto per smettere di fumare. Sette minuti d’attesa. Mi turbo al pensiero della cifra che ci sarà sul tassametro. Pioviggina. Sono le 7.45 circa, per la strada non c’è nessuno.
Ho in mano il mio iPhone. Come sempre, del resto.
Non mi accorgo che un tizio, neppure particolarmente possente, cammina lungo il marciapiede, nella mia direzione. È mattina, del resto, non sono mica le due di notte. E io sono sull’uscio del mio portone, del resto. Nel mio quartiere. Praticamente a casa, del resto.
È solo quando allunga una mano sul mio telefono, per rubarmelo/scipparmelo/fottermelo/ciularmelo, che mi accorgo della sua presenza. Il tutto dura pochi secondi che, però, nella mia memoria sono lunghissimi. I primi passano mentre cerco di capire che cazzo sta succedendo (uno non s’aspetta d’essere derubato alle 8 di mattina, fuori casa, neppure se vivi in una metropoli, neppure se sei donna e se sei sola, neppure se abiti in una zona non esclusivamente borghese, fortemente multi-etnica, non hai il pre-giudizio, no?).
Ci contendiamo il telefono, per qualche altro secondo, in cui io realizzo che sì, sta succedendo esattamente ciò che mi pare stia succedendo. Lo guardo in faccia, mentre gli dico “No! No!” con un tono di pura supplica. Vorrei dirgli: “Senti dai zio, parliamone, entro a casa e ti prendo gli orecchini demmerda che m’hanno regalato per la laurea, che non ho mai messo e mai metterò, e comunque ti rendono più di un iPhone, che mò è pure uscito il 7, dai, non fottermi il telefono che qua dentro c’è un sacco di roba, essù, sii ragionevole”.
Ma ci sono situazioni in cui non c’è spazio per il confronto dialettico. Mi strappa il telefono e scappa. Io lo inseguo, urlando, disperata. Giuro: di-spe-ra-ta. Ma ormai è scomparso, dietro l’angolo, e io non sono un’atleta, e ho abbandonato la valigia in mezzo alla strada, e sta arrivando il taxi, e devo partire, non posso non partire. Quindi, a misfatto compiuto, torno indietro continuando a tirar giù qualche Madonna.
Naturalmente sono spaventata. Naturalmente sono incazzata. Naturalmente mi sento un’idiota.
Naturalmente lo scippatore non era italiano. Certo, certo, esistono pure quelli italiani. Il mio, però, non lo era.
Naturalmente non saprei dire di dove fosse. Potrei ipotizzare marocchino. Ma, in fondo, cosa ne so. Ma, in fondo, mica so distinguerlo un marocchino da un siriano, o da un egiziano. So solo che ho sempre voluto credere che fosse possibile convivere pacificamente, che fosse sufficiente comportarsi con sicurezza, con padronanza del luogo, come a dire: ehi, io sono del posto, i commercianti mi conoscono per nome, al weekend vado a fare colazione in un bar loschissimo, da sola, e commento il tempo con un clochard, a cui offro pure le sigarette. E non ho mica paura, e non me ne scappo mica come una fichetta in una zona più “bianca”. Anche se quando cammino attraverso sguardi lugubri che mi vengono spalmati addosso, pure se vado in giro in pigiama, e mi sforzo di accettarli, o di ignorarli, o di pensare che va bene lo stesso, che si può convivere, che si deve convivere, che non bisogna aver paura, che il tema della sicurezza è solo propaganda salviniana, che in fondo in tanti anni non mi è mai successo nulla, che nessuno mi ha mai toccata. Anche se sono donna. Anche se sono sola.
Il fatto sconvolgente, però, è che per qualche ora, tutte queste nobilissime convinzioni sono scomparse dalla mia mente. Per qualche ora non ho provato altro che paura, impotenza, vulnerabilità (perché il tema non era nemmeno il danno economico, che comunque c’era, ma proprio l’accidenti che mi era preso) e ansia TOTALE all’idea che quel piccolo oggetto assurdamente costoso fosse nelle mani di chissà chi. Con sopra tutti i miei dati, le mie email, l’app dell’home banking, i miei pin, i miei social, le mie fotografie. Per qualche ora non sono nemmeno riuscita a capire l’entità del rischio che stavo correndo, sentivo solo che esisteva, e lo percepivo enorme, e dovevo fare di tutto per limitarne le conseguenze. Mi sentivo violata, fin troppo, come se avessero violentemente avuto accesso a una parte troppo intima della mia vita. Inoltre mi sembrava di avere un arto in meno, un senso in meno, di essere invalida. Non sapevo più che ore fossero, non sapevo più come comunicare con il resto del mondo (stavo partendo, sapete no, quelle cose tipo “l’aereo è in orario”, “ci vediamo fuori dall’aeroporto” e via discorrendo). Non ricordavo un singolo numero a memoria a parte quello vecchio di mio padre, graziaddio ancora in funzione, memorizzato da giovane, quando usavamo ancora il nostro cervello senza demandare tutto ai nostri device.
Appena atterrata in Puglia ho denunciato il furto ai carabinieri, bloccato il telefono tramite il gestore, avviato l’inizializzazione da iCloud nella speranza di cancellare tutti i miei dati. E solo dopo molte ore sono riuscita a guardare gli eventi da una prospettiva meno emotiva. Solo dopo molte ore sono riuscita a esorcizzarmi, a vincere il razzismo che mi era sbocciato dentro, a dirmi tutte le cose giuste che bisogna dirsi, in questi casi, per restare umani. Per non diventare ciechi e parziali. Per non abdicare a tutto il proprio ordine di pensiero, per non gettare alle ortiche la tolleranza, per non ammettere che l’accettazione è fragile e spesso solo apparente, anche quando siamo convinti che non sia così. Per continuare a credere, forse ingenuamente (quasi per fede, o per principio), nella cultura, nel rispetto, nella comprensione e nell’empatia, più che nell’odio e nella diffidenza. Per non ragionare come un’ottusa e collerica femmina bianca che cerca un facile capro espiatorio per i mali della società contemporanea tutti. Per non essere la solita occidentale politicamente corretta che pensa “ok, ti consento di deambulare sul territorio del mio paese, ti sopporto, ti difendo anche dai razzisti ma, ehi, non osare toccare il mio culo altrimenti partecipo al prossimo raduno a Pontida, razza di beduino venuto qui per delinquere“.
Solo dopo molte ore sono riuscita a pensare che quello là chissà che cazzo di storia c’ha, chissà da dove viene in realtà, chissà come è arrivato qua, attraversando quale inferno, voglio dire, abbandonando tutta la sua vita e i suoi affetti, che avrà pur avuto, nel posto da cui è andato via, ammesso che non se li sia portati appresso, ammesso che non li ha visti cadere in mare e morire. Chissà che vita sta vivendo, in quale patetica casa, impegnando in che modo le sue giornate prive di prospettiva; chissà com’è essere uno zombie sociale; probabilmente solo; probabilmente allo sbando; abbandonato a una vita nella quale deve avere davvero poco da perdere; chissà ai margini di quale periferia umana abita, e quanta merda ha visto passare sotto i ponti della sua misera esistenza.
Solo dopo molte ore sono riuscita a ricordare che il tema è l’integrazione, non la sicurezza, e che il calo della seconda è conseguenza dell’assenza della prima. E che sì, certo, l’integrazione è una strada difficile che richiede un enorme sforzo culturale da ambo i fronti, per essere percorsa. Ed è probabilmente una partita persa in partenza, ma è l’unica che possiamo scegliere di giocare.
Solo dopo molte ore ho riflettuto su quanto siano relativi i concetti di “shock” e di “paura” e di “povertà”.
Solo dopo molte ore sono riuscita a confermare a me stessa che la risposta al cambiamento globale in atto (perché non è un “problema” del mio quartiere, o di Milano, o della sola Italia), che è un cambiamento che ha a che fare con i flussi migratori mondiali, il surriscaldamento climatico, la crisi energetica, finanziaria, politica, valoriale; con il confronto tra culture e civiltà e religioni assai distanti che, in questo mondo interconnesso e globalizzato si ritrovano a dividere spazi e difficoltà, ecco non può e non deve essere comunque la rabbia. Neppure quando legittima.
Solo dopo molte ore ho pensato che stiamo iniziando a scorgere la natura infelice del post-capitalismo (fede a cui abbiamo incondizionatamente aderito senza comprenderne mai le conseguenze, e lasciando ai no-global l’ingrato compito di strepitare un po’, mentre dalla nostra oasi middle class beneficiavamo delle vacche grasse), e che la cosa più sbagliata da fare in questo momento è alimentare una guerra tra poveri, tra più o meno disgraziati, indulgendo alla più grossolana delle analisi, al più sommario processo sociale, alla più ovvia delle reazioni: l’ira funesta e generalizzante che, per quanto comprensibile (non tanto per il furto di uno smartphone, ma magari se ti stuprano avrai ben ragione di non voler sentire ragioni), ci fa perdere di vista le persone. La varietà dell’umanità, che dovrebbe essere un’opportunità e non una minaccia, in un mondo sano. Che disumanizza noi, e l’altro. Che crea un antagonismo deleterio. Che ci fa distinguere le persone per provenienza, razza, religione, invece che per la bontà o cattiveria delle loro azioni. Perché un furto è un furto ed è condannabile, indipendentemente da chi lo compia (per quanto possano esistere delle attenuanti). Per cui uno stupro è uno stupro, ed è una barbarie sia che la compia un egiziano in un parco a Milano, sia che la compiano degli italianissimi calabresi, in gruppo, su una minorenne. Perché se lasciamo che la provenienza costituisca un’aggravante, siamo razzisti e siamo quelli della specie peggiore, quelli che non ammettono neppure d’esserlo.
Ma per pensare tutte queste cose, lo ribadisco, mi sono servite molte ore perché, per almeno mezza giornata, complice la paura che possa capitare di nuovo e che possa capitare di peggio, sono stata definitivamente razzista.