Addio concorrenza, anche il governo Renzi si arrende alle corporazioni

Doveva essere uno dei fiori all’occhiello dell’esecutivo, sarà probabilmente un esperimento fallito. Da Uber alle professioni, tutto quel che poteva essere liberalizzato, è stato annacquato. Non siamo ancora un Paese di libero mercato

Sembrava la volta buona per le liberalizzazioni in Italia, ma con ogni probabilità non lo sarà perché la legge annuale sulla concorrenza, introdotta per la prima volta con il Governo Renzi, diventerà, con ottime probabilità, un esperimento fallito. Eppure le premesse per una normativa che aprisse i mercati c’erano tutte: si sono alternati due ministri come Guidi prima e Calenda poi da sempre vicini, almeno nelle intenzioni, alle ragioni del libero mercato e della concorrenza. Inoltre, il pacchetto delle liberalizzazioni è stato direttamente gestito da un riconosciuto liberale come Carlo Stagnaro, già fondatore dell’Istituto Bruno Leoni e capo della Segreteria tecnica del Ministero dello Sviluppo Economico. Nonostante questo, qualcosa nella “Legge annuale per il mercato e la concorrenza” è chiaramente andato storto.

A partire dai tempi parlamentari, decisamente incompatibili con un provvedimento a cadenza annuale. L’iter è infatti iniziato il 28 aprile 2015 alla Camera dei deputati, dove è stato approvato in prima lettura, così come dalla Commissione Industria del Senato per approdare poi ad ottobre 2016 fra le poltrone rosse dell’Aula di palazzo Madama, dove dorme sonni – non proprio – tranquilli. Il provvedimento d’iniziativa del Ministero dello sviluppo economico è stato infatti terreno di battaglie politiche e lobbistiche, luogo di promesse fatte e non mantenute che hanno modificato, sventrato, svuotato il testo. Della formulazione iniziale insomma, resta poco o niente, gli obiettivi liberali sono andati in frantumi e persino gli stessi soggetti che lo avevano fortemente sostenuto, come associazioni e think tank, ne hanno infine preso le distanze.

Emblema di quanto appena riferito è la “questione Uber”, ovvero relativa al tentativo – naufragato – di garantire, attraverso il provvedimento, una adeguata disciplina in materia di autoservizi pubblici non di linea (quelli offerti da Ncc e Uber). Tuttavia, nulla hanno potuto Governo e Parlamento contro il malcontento dei tassisti, che hanno minacciato scioperi– alla stregua di quelli già verificatesi per analogo motivo a Parigi e Londra – contro la piattaforma degli autisti di Ncc. Resiste, pertanto, la norma che costringe le berline nere a tornare in rimessa dopo ogni corsa, come previsto dalla normativa vigente. I relatori della legge al Senato non hanno potuto fare altro che inserire un emendamento che delega il governo, entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge sulla concorrenza, ad adottare un apposito decreto legislativo per disciplinare il trasporto Ncc.

Il provvedimento d’iniziativa del Ministero dello sviluppo economico è stato terreno di battaglie politiche e lobbistiche, luogo di promesse fatte e non mantenute che hanno modificato, sventrato, svuotato il testo. Della formulazione iniziale, insomma, resta poco o niente. Gli obiettivi liberali sono andati in frantumi e persino gli stessi soggetti che lo avevano fortemente sostenuto ne hanno infine preso le distanze

Un niente di fatto quindi, tutto si è risolto in una nube di fumo, in una delega che altro non è se non un “contentino”. Insomma, ci si riempie la bocca con la sharing economy e poi tocca fare i conti con la realtà. Si è scelta quindi una delega aperta, che visti i tempi biblici di approvazione del decreto concorrenza, rischierà di non vedere mai la luce. L’esperienza insegna che ci sono alcune materie che per essere liberalizzate seriamente di vere e proprie riforme di settore, onde evitare tentativi fallimentari. Meglio non perdere di vista la realtà, inclusa quella dei mezzi legislativi.

Lo stesso principio vale infatti per la materia delle professioni, i cui rappresentanti – notai, avvocati, ingegneri, commercialisti – sono stati oggetto del variegato disegno di legge. Un esempio su tutti è quello dei notai, capo-fila nello schieramento degli scontenti sin dal primo approdo del provvedimento in Consiglio dei Ministri, pronti a difendere la categoria in ogni modo – rebus sic stantibus – ce l’hanno fatta, con un appoggio parlamentare bipartisan, a far stralciare le norme non gradite.

Una vittoria sotto il segno del sigillo, al termine della quale continuerà ad essere necessario andare dal notaio per costituire una Srl semplificata (per la quale il decreto proponeva come sufficiente una scrittura privata). Soppressa anche l’ipotesi di affidare anche agli avvocati ed ai commercialisti le scritture degli atti per le transazioni di immobili non residenziali fino al valore di centomila euro. Insomma, anche in questo caso sarebbe stato meglio tener conto delle finalità reali del provvedimento, ovvero quelle della rimozione degli ostacoli regolatori all’apertura dei mercati e della promozione della concorrenza invece di pensare a raggiungere più risultati in una sola volta, mescolando una serie di materie in maniera piuttosto mal assortita.

Non meno esemplificative del fallimento del ddl concorrenza sono le vicende relative alle farmacie e al digital single market. È saltata, infatti, la liberalizzazione anche sul fronte farmaci di Fascia C che continueranno ad essere venduti solo in farmacia e viene ridotta al 20% su base regionale la costituzione di società di capitali nel mercato farmaceutico. Niente da fare nemmeno sul fronte dell’implementazione del digital single market per i servizi in rete. La norma “anti-Booking” che vieta il “parity rate”, dando agli albergatori la possibilità di praticare alla clientela finale prezzi e condizioni migliori rispetto a quelli offerti da intermediari terzi, anche online (come ad esempio Booking.com), è passata come emendamento al testo del ddl nella sua formulazione originaria, senza dover prima darne comunicazione alla Commissione Ue, segnando la vittoria di Federalberghi sui colossi dell’intermediazione on-line.

Non meno esemplificative del fallimento del ddl concorrenza sono le vicende relative alle farmacie e al digital single market. È saltata, infatti, la liberalizzazione anche sul fronte farmaci di Fascia C che continueranno ad essere venduti solo in farmacia e viene ridotta al 20% su base regionale la costituzione di società di capitali nel mercato farmaceutico

Il nuovo Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, il 5 ottobre 2016, nel corso dell’audizione presso le Commissioni riunite Industria del Senato e Attività produttive della Camera, ha comunicato che il Governo intende varare un nuovo pacchetto sulla concorrenza nel 2017, pensato per ampliare le forme di tutela dei consumatori. L’idea era quella che potesse concludersi l’esame in Aula prima del referendum del 4 dicembre, ma a questo punto l’idea di smuovere nuovamente così tanti interessi pare decisamente improbabile. Molto più probabile invece l’inserimento di alcune di queste norme all’interno del nuovo pacchetto concorrenza 2017, alla luce anche dei tempi che comporterebbe la seconda lettura parlamentare.

Considerato tutto ciò, il governo avrebbe dovuto interrogarsi, prima di portare il disegno di legge in Consiglio dei Ministri, sullo strumento della legge annuale per la concorrenza in quanto, come ha dimostrato questo primo tentativo, la stessa si è trasformata in un minestrone di tante, troppe materie costituendo un assetto ben poco efficace nel raggiungere i risultati della liberalizzazione. Peccato, perché proprio come scriveva Bruno Leoni una legislazione troppo dettagliata mina la certezza del diritto e i suoi obiettivi. Così, il cammino della legge si è trasformato da passeggiata liberale a lunga via crucis per la concorrenza. Tra ritardi, errori strategici e assalti delle corporazioni non è ancora la volta buona per il libero mercato.

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