Un lettore comune pensa a Jack London e gli vengono in mente cani, lupi, il Klondike da attraversare un passo dopo l’altro con le racchette da neve; o pianure ghiacciate da solcare a bordo di slitte trainate da mute di husky. Eppure la sua grandezza non sta soltanto nella sua capacità di descrivere la durezza del rapporto tra uomo e natura, né in quella di raccontarci in quattro pagine la bellezza della vita e la drammaticità della morte. L’attualità di Jack London è il suo punto di vista, capace di tagliare trasversalmente la società vedendone le storture, sia in basso che in alto.
Nato nell’abisso tra le classi subalterne, i pirati di ostriche, i vagabondi, gli ubriaconi e i derelitti, in pochi anni London, grazie alla sua scrittura e alla sua incredibile forza di volontà, è passato dalla totale indigenza all’essere il più famoso e pagato scrittore del mondo. Cresciuto tra i poveri sognando l’agio e la cultura delle classi dirigenti, che da giovane credeva illuminate e geniali. Quando Jack London si è ritrovato faccia con le élite, con quella che ora chiamiamo “casta”, ha capito subito l’esatta dimensione del dramma a cui il mondo occidentale stava andando incontro. E, pur morendo a soli 40 anni questo stesso giorno di cent’anni fa, il 22 novembre 1916, in molti dei suoi scritti aveva già raccontato il pantano morale e l’inefficienza dirigenziale che avrebbero portato l’Occidente, che stava già affrontando una sanguinosa guerra mondiale, molto vicino al collasso.
«Non era tanto questo loro materialismo che mi sconvolgeva», scriveva in un articolo intitolato What life means to me, pubblicato nel marzo 1906 su Cosmopolitan e ritradotto da Chiarelettere ne Il senso della vita (secondo me). Si tratta di uno dei più espliciti attacchi all’élite scritti da Jack London. E continua così, sparando ad alzo zero: «Queste belle donne splendidamente abbigliate parlottavano dei loro piccoli dolci ideali e dei loro piccoli cari principi morali; ma, al contrario di quanto dicevano, la chiave dominante della vita che conducevano era materialistica. Ed erano così sentimentalmente egoiste! Davano il loro contributo a ogni sorta di piccola opera di carità e se ne vantavano, mentre, in ogni momento, il cibo che mangiavano e gli splendidi abiti che indossavano erano il frutto dei dividendi ricavati con il sangue del lavoro minorile, dello sfruttamento e della stessa prostituzione».
E ancora: «Ho conosciuto uomini che invocavano il nome del Principe della Pace nelle loro diatribe contro la guerra e che armavano gli uomini di Pinkerton per abbattere gli scioperanti delle loro fabbriche. Ho conosciuto degli uomini così incoerenti da indignarsi per la brutalità degli incontri di pugilato mentre erano complici dell’adulterazione del cibo che ogni anno uccideva persino più bambini di quelli che aveva ucciso la mano sanguinante di Erode. Ho conversato con capitani d’industria in alberghi, club e case private, in carrozze Pullman e battelli a vapore, meravigliandomi di quanto poco fossero adusi a viaggiare nel regno dell’intelletto. Al contrario, ho scoperto che il loro intelletto, in senso commerciale, era sviluppato in maniera abnorme. Così come ho scoperto che il loro senso morale, per quanto concerneva gli affari, era inesistente».
Lo sguardo di Jack London è impietoso nel descrivere i campioni di quel ventre molle che oggi chiamiamo casta e che era identica a quella che oggi vogliamo rottamare: «Quel delicato gentiluomo dai tratti aristocratici era un uomo di paglia e uno strumento delle compagnie che derubavano vedove e orfani. Quel gentiluomo che collezionava preziose edizioni ed era un mecenate della letteratura sottostava ai ricatti di un boss della macchina municipale, flaccido e dai sopraccigli neri. Quel padrone di giornale che pubblicava annunci pubblicitari di medicinali brevettati, e non osava stampare sul suo giornale la verità circa i cosiddetti medicinali brevettati per paura di perdere gli introiti della pubblicità. […] Quell’altro, un pilastro della Chiesa e un generoso benefattore delle missioni in terra straniera, faceva lavorare le sue commesse dieci ore al giorno per una paga da fame e per di più incoraggiava direttamente la prostituzione. Quell’altro ancora, cattedratico nelle università, affermava il falso nelle corti di giustizia dietro il pagamento di dollari e centesimi. Infine, quel magnate delle ferrovie era venuto meno alla sua parola di gentiluomo e di cristiano quando aveva concesso un rimborso segreto a uno dei due capitani d’industria bloccati in una lotta all’ultimo sangue. Ovunque era la stessa cosa: crimine e tradimento, tradimento e crimine».
Quattro anni prima di scrivere queste righe, Jack London era stato a Londra per un’estate. Voleva andare a vedere quali fossero le esatte dimensioni dell’abisso in cui stavano scivolando 40 milioni di sudditi dell’Impero Britannico. E quel che vide lo scrisse nel Popolo degli abissi, un reportage ritradotto da Mondadori che ancora oggi conserva tutta la sua attualità e la sua potenza. Alla fine di quel reportage, dopo aver descritto nei più minuti dettagli quell’abisso popolato da derelitti e da miserabili controfigure di esseri umani, uomini e donne gettati in una costante guerra tra straccioni, si prese un capitolo per tirare le conclusioni e lo titolò “La gestione della società”.
Dopo tre mesi passati tra le strade sporche e i terribili ospizi dell’East End di Londra, London ha la penna affilata e un sacco di dati da snocciolare: «Sono 40 milioni gli abitanti di questo paese: e 939 su 1000 muoiono in assoluta povertà, mentre un esercito di 8 milioni lotta disperato sull’orlo della fame e dell’indigenza. Inoltre», scrive London parlando di una cosa che ci suona molto familiare, «ogni nuovo nato viene al mondo gravato di un debito di 110 dollari, in virtù di un espediente noto alla società con il nome di Debito Nazionale».
Per chiudere il suo libro, London, che è un socialista e un positivista, e che quindi pretende che la società serva a migliorare le condizioni di vita dell’Umanità, vuole rispondere a una domanda: «Se la Civiltà ha davvero accresciuto la capacità produttiva dell’uomo medio, perchè non è riuscita anche a migliorarne la condizione di vita?».
Questa è la sua risposta, datata 1902: «Cattiva gestione. La civiltà ha reso possibile la creazione di ogni genere di comodità e di piaceri del corpo e dello spirito; ma di queste comodità e di questi piaceri, l’inglese medio non è partecipe, e se non potrà esserne partecipe allora la Civiltà andrà gambe all’aria, poiché non v’è ragione che un meccanismo riconosciuto totalmente fallimentare debba continuare a sussistere! […] La società va riorganizzata, assicurandole una gestione nuova ed efficiente. Che l’attuale sia incapace è fuori discussione. Ha privato l’intero Regno Unito della sua linfa vitale, ha indebolito la popolazione rimasta in patria al punto di renderla un’accozzaglia di individui incapaci di competer vittoriosamente con le altre nazioni, ha edificato un West End e un East End che si allargano ormai a tutto il Regno Unito, due poli opposti e complementari di cui uno vive di dissolutezza e dissipatezza, l’altro agonizza di fame e malattie».
Ma è nel finale che London affonda la sua rabbia nel ventre molle della società: «È inevitabile che questa gestione, responsabile di un fallimento così profondo e criminale vada spazzata via. Non è solo risultata inefficiente e ha sprecato energie individuali e collettive; essa è anche colpevole di essersi indebitamente appropriata dei fondi della società. Ogni indigente stremato, ridotto a cadavere pelle e ossa, ogni cieco, ogni bimbo nato in prigione, ogni uomo donna bambino dallo stomaco che si lamenta per i crampi della fame… tutti costoro sono affamati proprio perché questa gestione si è appropriata dei fondi della società».
Le parole di London sono durissime. Ma oggi, a un secolo di distanza dalla sua morte, lo scenario che abbiamo di fronte è realmente diverso da quello che ci descrisse Jack London nei suoi scritti? Non sembra, ed è anche per questo che quegli scritti sono ancora, drammaticamente, attuali.
L’astensione di milioni di elettori e la presa di un populismo di pancia permette l’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti; un voto popolare e trasversale ai partiti chiede l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa e mette in ridicolo l’intera classe dirigente britannica; la cavalcata verso il ballottaggio, e forse la vittoria delle Presidenziali francesi, del Front National guidato da Marine Le Pen sono sempre più concrete; e, da ultimo, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, dopo aver vinto città chiave come Roma e Torino, sale nei sondaggi e sembra per la prima volta in grado di vincere le elezioni politiche italiane.
Il minimo comune denominatore di tutte queste forze centrifughe e centripete che stanno sconquassando mezzo mondo occidentale è uno solo: la sfiducia dell’elettorato verso la classe dirigente, quell’onda che qualche anno fa era la rottamazione cavalcata da Matteo Renzi e, in fondo, anche il Yes we can che ha portato Obama a due presidenze, ora si è tramutata in rabbia. Anche in tra chi riesce a non cedere alla tentazione populista, è molto diffusa la sensazione che la classe dirigente non sia più quella di una volta, che sia marcia, ripiegata su se stessa, lontana dai rispettivi paesi reali. È significativo il fatto che in Italia, e già da un po’, abbiamo addirittura nostalgia delle caste precedenti, quelle conniventi con poteri grigi, quelle che ci hanno fatto assistere agli anni di piombo, e che abbiamo cacciato a pedate negli anni Novanta con Tangentopoli.
Si stava realmente meglio una volta? La domanda, che è sempre ingenua, anche questa volta ha risposta negativa. No, non si stava meglio prima. Certo, è imparagonabile il senso della politica di un Winston Churchill a quello di un Tony Blair, e pure quello di un Giulio Andreotti a quello di un Matteo Renzi. Ma il mondo, come al solito, non si divide in sinistra e destra, ma in alto e in basso. E se il basso assomiglia ancora allo stesso abisso che London aveva visto nell’East End di Londra, l’alto è sempre lo stesso: ricco, ipocrita, incapace di avere una visione del futuro e, men che meno, di governare una macchina che, nel frattempo, dai tempi di London si è fatta cento volte più complessa. Insomma, c’è ben poco da stare allegri.