Con l’elezione di Trump, sui social, sono arrivati i primi messaggi di chi vive all’Ameriga e inizia a pensare a un salvifico rimpatrio. Non solo Robert De Niro, dunque, ha dichiarato che sarebbe ora di tornare in Italia. Così ho colto l’occasione per riflettere un po’ sulla vita degli expat, complice il fatto che nelle ultime settimane sono andata a fare una scampagnata in Asia, per trovare un mio amico che si è trasferito lì.
Partiamo dal principio: i giovani italiani di oggi, quelli compresi tra i 20 e i 30, i figli della middle class degli anni ottanta, sono sostanzialmente divisi in due macrocategorie: quelli che dall’Italia se ne sono andati e quelli che in Italia sono rimasti. Ciascuno di essi ha le sue ragioni e spesso tende a pensare che l’orto del vicino (che poi spesso è lontano, molto lontano) sia il migliore.
Il fatto, però, come nella migliore tradizione, è che entrambe le scelte, hanno dei pro e dei contro. E se vero è che il costume italico è quello di lamentarsi molto dei problemi dell’Italia, è vero anche che non è tutto rose e fiori neppure chiudere la valigia di cartone e andarsene (no, neppure se è un trolley in vera pelle umana con 4 ruote e servosterzo)
Il fenomeno, lo sapete bene, ci tocca da vicino, perché tutti abbiamo un amico, un fratello, un figlio, un innamorato, una sorella, una collega che ha preso armi e bagagli e se n’è andato all’estero per tentare una sorte migliore e possibilmente più generosa di quella che il Bel Paese poteva offrire. Va pure detto, d’altra parte, che c’è expat ed expat. Perché un conto è andare a vivere a Londra, che alla fine della fiera è la sesta città italiana ed è giusto a un’ora in più di volo da Milano, un banale fuso orario di differenza, ben altro conto è scegliere di andarsene all’altro capo del mondo. Perché un conto è partire in coppia, altro conto farlo da soli. Perché un conto è farlo perché la patria offre talmente poco da non lasciare spazio a molte alternative (come nel caso di quei post-romantici che hanno intrapreso una carriera nella ricerca), ben altro è farlo avendo qualcosa da perdere, che però non ci sembra abbastanza. Al punto da spingerci verso un’avventura nuova, lontana, diversa. Questo per dirvi che il panorama è assortito e ricco di variabili.
A noi, che restiamo da quest’altra parte, a dolerci dell’assenza di chi è andato, a immaginare da lontano il riverbero luccicante delle loro vite piene di benefits aziendali, rimane difficile capire quanto costi una scelta di questo tipo. Quale sia il dark side della vita da expat.
Non ci raccontano quanto sia caro il prezzo che pagano. Non ci raccontano quanto abbiano messo in gioco, come noi e più di noi in questa partita infinita del self-improvement. In questa incondizionata corsa al benessere, in questa scommessa sempre aperta con se stessi, in questo bisogno, che è anche illusione, presunzione a volte persino, di dover diventare per forza qualcuno
Ho contatto allora un mio amico, che vive a Londra da 8 anni e che è un entusiastone, uno che si è integrato al meglio e che indietro non tornerebbe mai.
“Qual è il motivo migliore per andarsene?”, gli ho chiesto.
“Volersi migliorare. Da tutti i punti di vista. Farlo solo per i soldi è un errore. Andarsene è come morire, sapendo che però puoi resuscitare. E cosa tu debba fare per resuscitare lo scopri solo quando sei lì, non lo sai prima. Per questo la motivazione deve essere forte e per questo deve nascere da una scelta adulta e ponderata, da un progetto di vita chiaro”, mi ha risposto. “Altrimenti resti solo quello che eri: un italiano che si lamenta”.
Senza saperlo, mi ha condotta dritta al punto della questione. Non di rado raccolgo rimostranze da chi è andato via. Hanno case mediamente molto più belle di quelle che hanno i loro coetanei in Italia, pagate dall’azienda, e non sono questo granché. Hanno stipendi che sono il triplo di quelli dei colleghi italiani e non sono comunque sufficienti. Hanno dei lavori che non sono proprio spezzarsi la schiena a raccogliere pomodori, e comunque non ne sono soddisfatti. Hanno bonus e incentivi tutto l’anno, mapperò non hanno tredicesima e quattordicesima, come gli italiani. Hanno l’assicurazione sanitaria che je copre pure l’unghia incarnita, mapperò non hanno mica tutte le ferie che si hanno in Italia. E il costo della vita è più alto. E la pasta comunque è diversa.
Ci ho pensato e mi sono chiesta, al netto delle fotografie alle feste sui rooftop con i cocktail in mano e le facce sorridenti, qual è il costo emotivo di andarsene a decine di migliaia di km di distanza dal proprio paese di nascita? E farlo magari per una scelta migliorativa, ma deliberata, non imposta, non indispensabile? Qual è il contraltare dei weekend esotici in posti che per noi sono tipo il viaggio di nozze? A cosa si rinuncia per poter dire: “Sai questo weekend vado ad Angkor Wat” come noi andiamo a fare la gita fuori porta ai mercatini natalizi di Trento?
- Adattarsi a una cultura diversa sembra bellissimo a dirsi, non semplicissimo a farsi. A ennemila km di distanza cambia tutto. Non solo che cose legali da noi, altrove sono reati (tipo che se fumi nel posto sbagliato ti mettono in prigione, o ti bastonano in pubblico); non solo che malcostumi sorpassati da almeno un par di secoli da noi (come sputare per terra), altrove sono normalissimi; non solo il costo della vita, gli ortaggi, il clima, l’alimentazione, la lingua, gli sport, il tasso di umidità, la religione. Pure i Fonzies cambiano, che hanno lo stesso logo, ma si chiamano Twister e invece che sapere di patate e formaggio sanno di cumino. Ho visto con i miei occhi una mia amica expat ripartire da Milano con una valigia carica di biscotti e merendine italiane. Giuro. Manco una rappresentante Ferrero.
- Trasferirsi in un posto in cui si dorme quando in Italia si veglia e viceversa, andare così lontano, significa accettare consapevolmente il fatto che nel migliore dei casi vedrai la tua famiglia, i tuoi amici, i tuoi affetti tutti, non più di una volta l’anno. Che per certi va benissimo, per certi altri è una fuga dagli irrisolti e le fughe di per sé non sono mai buone soluzioni emotive. Per altri ancora, comporta un senso di colpa latente, espone alla consapevolezza di non avere un punto di riferimento solido nel nuovo mondo per cui si parte – da un lato – e all’evidenza di non avere un laccio emotivo abbastanza forte nel luogo che si lascia – dall’altro -, quel tessuto sociale e relazionale che renderebbe più difficile la partenza. Impossibile, a volte. Partire è una sfida, certo, ma come tutte le sfide comporta un sacrificio. Che è anche affettivo. Ed è grosso. E segna, in qualche modo, la scala delle priorità che diamo alla vita. Vale per i meridionali che vanno al nord. Vale per gli italiani che se ne vanno a Shangai, che non possono neppure indulgere come facciamo noi terrons con la solita tiritera dell’amore/odio per la terra natìa, che ci struggiamo tanto e alla fine la raggiungiamo in 1 ora di volo.
- Paese che vai, expat che trovi e questo è vero. Il mondo è diventato piccolo (fin troppo) e ciò fa sì che esistano espatriati da tutto il mondo in tutto il mondo, e che essi si incontrino e solidalizzino tra loro (perché per quanto diverso sia da te un tedesco, ti è comunque culturalmente più affine di un malese). Tuttavia gli expat sono expat. Vanno e vengono. E i legami che crei, le amicizie che trovi, sono sempre soggetti a questo flusso vagabondo, a questo pellegrinaggio alla ricerca di un sé altro, un sé migliore, altrove. Spesso sono legami fortissimi, profondi, che attecchiscono e crescono in fretta, ma si fondano su un presupposto contemporaneo e onesto, quando sono paritetici: non durerà per sempre. Finirà. Arriverà una nuova opportunità, una nuova destinazione, un’altra tappa da aggiungere al viaggio esistenziale che hanno intrapreso.
Dev’essere questo. Dev’essere che stare così lontani è figo, ma fino a un certo punto. Dev’essere anche che, in fondo, se è vero che non bisogna accontentarsi, è vero pure che non bisogna cadere nel “niente è mai abbastanza”. Perché quando nulla è mai abbastanza, quando nessun luogo, nessuna persona, nessun impiego, in Italia o all’estero che sia, ci appaga, la serenità diventa un obiettivo difficile e forse c’è qualcosa che fa corto circuito dentro di noi. E non dipende dal luogo in cui scegliamo di vivere o dalla cifra che il nostro conto in banca raggiunge.
“Qual è il motivo migliore per andarsene?”, “Volersi migliorare. Da tutti i punti di vista. Farlo solo per i soldi è un errore. Andarsene è come morire, sapendo che però puoi resuscitare. E cosa tu debba fare per resuscitare lo scopri solo quando sei lì, non lo sai prima”
Dev’essere che, mentre farciscono le conversazioni in italiano di parole inglesi, non ci raccontano quanto sia caro il prezzo che pagano. Non ci raccontano quanto abbiano messo in gioco, come noi e più di noi (che siamo rimasti accettando compromessi altri), in questa partita infinita del self-improvement. In questa incondizionata corsa al benessere, in questa scommessa sempre aperta con se stessi, in questo bisogno, che è anche illusione, presunzione a volte persino, di dover diventare per forza qualcuno, raggiungere la vetta, scorgere dal piano più alto il senso piu profondo della vita.
Siamo la rampante generazione cresciuta a pane e promesse, dopata di aspettative che sono state spesso disattese e ora, che siamo adulti, siamo impegnati – ciascuno a suo modo – nel tentativo di sopravvivere a ciò che ci aspettiamo da noi stessi, ciò che i nostri genitori, i nostri professori, i nostri catechisti, i nostri maestri di calcetto di quartiere, ciò che tutti s’aspettano da noi. Al nostro bisogno di sentirci speciali, di essere REALIZZATI, di fare meglio degli altri, di ottenere di più, di concludere grandi cose. GRANDI. Ovunque questa maratona ci conduca. Costi quel che costi.
Sono tornata pensando che ognuno paga il suo prezzo. Che andarsene è molto affascinante. E che, per certi aspetti, lo è pure restare. E che ogni volta che rimpiangiamo le strade che non abbiamo percorso, facciamo bene a ricordare che non siamo il lavoro che facciamo. E neppure il posto in cui viviamo, anche se entrambi questi elementi ci influenzano. E che le persone possono essere soddisfatte, o infelici, ma questo dipende dal modo in cui affrontano la vita e da quanto riescono a farla aderire alle loro autentiche esigenze. Materiali e non. Indipendentemente da dove scelgano di viverla. Perché sì, state sicuri, che non è tutto oro quello che expat.