Cari genitori, la scuola insegna ai vostri figli a vergognarsi del corpo

Il racconto di un sussidiario porta avanti frammenti di una cultura che si sperava superata: la vergogna e il timore di sembrare grassa, in un’epoca in cui certe paranoie speravamo di averle dimenticate

Vittoria è una mia lettrice. Ed è anche una mamma. Una di quelle un po’ obsolete, sia chiaro, che pensano ancora che i propri figli debbano fare i compiti assegnati a scuola, senza protestare, senza diventare un caso mediatico pubblicando una letterina sui social in cui spiega perché la sua prole deve imparare a vivere facendo campeggio, invece che adempiendo ai propri micro-doveri. No. Vittoria non solo pensa che i compiti vadano fatti, perché bisogna imparare da subito il senso del dovere, il valore della responsabilità; addirittura, aiuta i propri figli a farli, i compiti.

Così, qualche settimana fa, mi ha scritto, inviandomi la fotografia di una pagina del sussidiario (Fantaparole 3) di suo figlio, nel quale era pubblicato un racconto dal titolo “Domani si ricomincia”, nel quale una protagonista di sesso femminile, in pieno stream of consciousness, parlava delle sue sensazioni alla vigilia del nuovo anno scolastico. E fin qui.

Cioè il racconto, pubblicato su un testo scolastico, DIDATTICO, per bambini e bambine, finisce con la paranoia di una mocciosa sul fatto che con l’indumento sbagliato sembrerà grassissima

La bambina spiega come da un lato non abbia voglia di tornare a scuola (dalle torto, del resto), ma un po’ sì, non tanto per lo studio, ma per i compagni. Cioè per Alexander, soprattutto, che sarà il suo vicino di banco, che l’anno prima non le piaceva granché ma adesso sono diventati amici. Molto bene. Brava, bambina. Inizia fin dalla più tenera età a tessere la tua personale odissea con il sesso maschile. Subito dopo, la protagonista inizia a preoccuparsi dell’outfit perfetto per il primo giorno di scuola (giusto, bisognerà pur crescere le future generazioni di fashion blogger). La bambina spera che sia bel tempo, così da poter indossare il suo vestito di seta (e pensare che ai miei tempi si andava a scuola con la tuta Benetton 0-12). Tuttavia, qualora dovesse disgraziatamente piovere, sua madre non glielo farà indossare, il vestito di SETA, e sarà obbligata a mettere il kilt, che presenta un problema enorme, questo benedetto kilt: LA FA SEMBRARE GRASSISSIMA (cito testualmente).

Fine del racconto. Cioè il racconto, pubblicato su un testo scolastico, DIDATTICO, per bambini e bambine, finisce con la paranoia di una mocciosa sul fatto che con l’indumento sbagliato sembrerà grassissima (e cosa penserà, a quel punto, Alexander, della sua corpulenta compagna di banco?)

Ora, io sono stata una bambina grassa, e anche un’adolescente grassa, e anche una giovane adulta grassa, e tutt’ora non si può dire che io sia esattamente Kate Moss. Non ricordo con esattezza a che età sono diventata grassa. So che c’è stato un periodo della mia infanzia nel quale ero come tutte le bambine: esile e bianchiccia. Facevo i capricci a tavola, non volevo mangiare nulla ed ero una candidata perfetta per essere in linea con gli standard estetici dominanti. Poi però a un certo punto qualcosa dev’esser cambiato. Devo aver scoperto una sconsiderata passione per le crostatine al cioccolato e nelle fotografie della mia prima comunione ero già definibile “cicciabomba”. Con il sovrappeso ci ho convissuto fin dalla più tenera età e per buona parte della mia vita, quindi so di cosa parliamo. Ho affrontato la mia adolescenza aderendo a un preciso ordine di principi che divideva il mondo in cose da magri e cose da grassi. Esistevano abiti, scarpe, tagli di capelli, parchi tematici per magri, non accessibili a noialtri (ecco perché non sono mai andata all’AcquaPark di Rossano Calabro, per esempio, dove i miei amici terrons andavano puntualmente in gita l’estate quando eravamo ragazzini: perché era un parco per MAGRI nel quale io con tutti i miei taralli, il mio internocoscia commosso, la mia pancia dalle fattezze simili a quelle di un materasso ad acqua, non ci saremmo sentiti a nostro agio, così, a tuffarci dallo scivolo kamikaze per emergere e sentirci dire “Madòòòòò lo tsunami hai fatto!”).

Trovo inaccettabile che nonostante i decenni trascorsi si continui a pensare che le donne possano essere pesate come carne in macelleria, misurando in chilogrammi la loro qualità di persone, di individui, incasellandole in categorie opprimenti

Nel tempo ci ho fatto il callo, anche se è un callo mai abbastanza duro, ai commenti di chicchessia sull’essere un po’ più magra o un po’ più grassa. Così come alla formula “sei una ragazza bella/carina/piacevole/affascinante/attraente ANCHE SE rotonda/paffuta/robusta/cicciottella/morbida/burrosa”. Fatto sta che la mia gavetta l’ho fatta, il mio imbarazzo, il mio senso di inadeguatezza, la mia vergogna per il corpo che avevo li ho vissuti e conosciuti, pur conducendo una vita regolare, non carente di consensi da parte del sesso maschile. Ed è per questo che l’email di Vittoria mi ha lasciata letteralmente interdetta.

Ora, io non voglio stare a fare la talebana, non voglio neppure dire che grasso è bello, perché il punto del grasso non è se sia bello o brutto, ma se sia sano oppure no. Alcune persone sono grasse e, oltre certi limiti, il grasso diventa nocivo, pericoloso, richiede delle contromisure per questioni di salute, non di estetica (esattamente come succede per la magrezza, oltre certi limiti). Inoltre, esiste il grasso oggettivo, che è quello non opinabile, quello che ti allontana progressivamente dal tuo peso forma, e il peso forma te lo dice il medico, non il giornaletto ViverMagri&Belli.

D’altra parte, però, c’è pure il grasso culturale. Che è quello che hanno quasi tutte le donne, nel cervello. Sì, insomma, quella percezione intimista del grasso, per cui anche una taglia 42 è capace di definirsi all’occorrenza grassa; per cui una donna normale può sentirsi brutta e mortificata dal vestito sbagliato, che non la premia. Perché dobbiamo premiarci quando ci vestiamo, e premiarci vuol dire ancora solo una cosa: sembrare magre, slanciarci, sfinarci. Le uniche curve da non nascondere sono quelle del seno. Forse il culo, ma da valutare. Per il resto, abbiamo una missione chiara, inculcataci fin da piccole: sembrare magre/non sembrare grasse. Aderire ai diktat della bellezza androgina, minimalista, denutrita persino.

E se posso, mio malgrado, capirlo per la mia generazione, che è stata forse l’ultima generazione televisiva nel senso generalista del termine, cresciuta con le tettone di Pamela Anderson che sobbalzavano mentre quella correva leggiadra sul bagnasciuga in un succintissimo costume rosso; e con i culi delle letterine sullo schermo di pomeriggio; e con le televendite degli elettrostimolatori Tesmed; e con il pedo-intrattenimento pomeridiano di Non è la Rai; e con una quantità incommensurabile di immagini e sollecitazioni che ci entravano prepotentemente in casa (e in testa) nel momento stesso in cui accendevamo il televisore; ecco devo dire che fatico a comprendere queste paranoie oggi.

Che da un lato, grazie all’evoluzione mediatica non siamo più chiamati a essere semplici spettatori, bensì protagonisti. Dobbiamo mostrarci e dobbiamo essere avvenenti quando lo facciamo. D’altro canto, però, oggi c’è una qualche forma di consapevolezza che 20 anni fa era inesistente.

Oggi esistono parole come gordofobia, curvy e soprattutto body-shaming, l’ingiusta vergogna del proprio corpo.

Oggi trovo impensabile che alle menti più giovani vengano proposti cliché che dovrebbero essere sorpassati, per una questione di intelligenza, di consapevolezza, di evoluzione. Trovo inaccettabile che nonostante i decenni trascorsi si continui a pensare che le donne possano essere pesate come carne in macelleria, misurando in chilogrammi la loro qualità di persone, di individui, incasellandole in categorie opprimenti, continuando a stigmatizzare la diversità dei corpi, continuando a promuovere uno stereotipo di bellezza univoco e riduttivo. E trovo tanto più inconcepibile che ciò venga fatto dalle pagine di un sussidiario, dalle quali si suggerisce che “sembrare grassa” sia uno stigma, che non essere magra sia una colpa. Così, tanto per continuare a edificare la strutturale insicurezza estetica del genere femminile e continuare a suggerire un filtro discriminante allo sguardo maschile.

Trovo tutto ciò impensabile. E anche Vittoria, che è una madre obsoleta, lo trova assurdo. Eppure nessuno, NESSUNO, tra gli autori del testo, l’editore che lo pubblica, le scuole che ne richiedono l’acquisto alle famiglie, le maestre che lo leggono in classe, i genitori che fanno il loro mestiere genitoriale (oltre a pubblicare fotografie su Instagram), NESSUNO si è accorto di quanto fosse sbagliato e offensivo, il contenuto di quella pagina.

Da un testo didattico, mi aspetto che muova verso un messaggio positivo, una nuova concezione di cura, di agio e di amore per il proprio corpo.

Genitori, docenti, presidi, dateci un occhio alle robe che fate leggere ai bambini. Un occhio critico, voglio dire. Che il vostro mestiere è anche quello

E no. Non venitemi a dire che ci sono altri problemi, perché ci sono sempre problemi altri e perché la cultura delle nuove generazioni, l’attenzione ai contenuti che sottoponiamo alle loro menti ultra-ricettive, non è procrastinabile. Perché dobbiamo sognare e lavorare per formare persone nuove, migliori di noi, che non ricadano nei nostri limiti e nei nostri errori culturali. Perché dobbiamo pensare ad affrancare le nuove generazioni dai fardelli insulsi che ci portiamo noi, come il SEMBRARE GRASSA. Come se fosse ancora un tema accettabile, quello del peso delle donne.

Chiudo chiedendomi come sia possibile che tra tutte le cose che potremmo insegnare alle nostre figlie, alle donne di domani, ci sia ANCORA questo vetusto e insultante body-shaming. Come, tra tutto ciò che si può insegnare a questi giovani esseri umani, tra tutti gli strumenti emotivi e cognitivi, sempre più indispensabili per affrontare la vita con rispetto e dignità, nell’urgenza di educarli a un mondo includente e tollerante, nel quale esista la molteplicità di gusti, di orientamenti, di culture, di religioni, di famiglie e di corpi, si possa sprecare anche una sola goccia di inchiostro per fermentare insicurezze e alimentare frustrazioni.

Genitori, docenti, presidi, dateci un occhio alle robe che fate leggere ai bambini.

Un occhio critico, voglio dire. Che il vostro mestiere è anche quello.

Che la responsabilità che avete, è grossa.

E, se di questo non vi rendete conto, c’è un problema. Un problema grassissimo.

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