Caro Francesco, mi ritrovo qui, su queste pagine online, a scriverti una lettera aperta. Siamo amici ormai da una ventina d’anni, e più o meno abbiamo condiviso una fetta comune del nostro cammino, come il mettere su famiglia, diventare padri, confrontarci con l’incedere del tempo. Mi ritrovo a scriverti una lettera aperta perché vorrei usare te, e la nostra amicizia, per aprire una sorta di riflessione comune, e al tempo stesso per lasciare che i nostri mestieri, almeno per qualche riga, abbiano il sopravvento sui nostri affetti. Vestirò quindi i panni del critico musicale che scrive a un cantautore, da pari a pari, come sempre.
La prenderò un po’ lontana, ma fidati, alla fine tutto tornerà.
Partiamo da una canzone, non tua.
“È un giorno freddo e chiaro/ e non sono invecchiati i tuoi fianchi perfetti/ tutte le leggi dell’universo insieme/ che potevano fare?”.
Caro Francesco, questi versi sono tratti da Un Natale borghese, una canzone contenuta in quello che ormai dobbiamo considerare l’ultimo album in carriera di Ivano Fossati. Dei versi, non credo sia necessario sottolinearlo, che ci dimostrano ancora una volta che Fossati è stato e tutt’ora è uno dei più grandi autori di canzoni di tutti i tempi del nostro paese, capace come nessun altro di indagare l’animo umano, i sentimenti e i corpi.
Dei versi, e veniamo al tema di questa mia lettera, che ci raccontano in poche parole, con la potenza lirica che solo i testi delle canzoni sembrano poter avere, come il passare del tempo non influisca affatto sulla bellezza e, tanto meno, sul desiderio e la passione, semplicemente, come tutto, diventate soggetti da trattare con parole diverse. Fossati ha scritto questa canzone alle soglie dei sessant’anni, normale che guardi alla sfera dei sentimenti e della passione con lo sguardo di un uomo adulto, un uomo, appunto. In realtà, questo suo sguardo, questa sua capacità di tratteggiare la donna, non la ragazza, attenzione, ma la donna, risalta particolarmente perché, per questioni sulle quali sarebbe da interrogarsi, il mondo della canzone, anche della canzone d’autore, sembra aver in qualche modo rinnegato l’età adulta, come se solo la giovinezza fosse il terreno di gioco preposto alla scrittura, come se i giovani, ormai identificato come l’unico pubblico possibile, fossero incapaci di intendere che cresceranno, cambieranno, e viva Dio che cambieranno. E se il pop, inteso come musica leggera di facile consumo, ha da sempre rinnegato la vecchiaia, probabilmente per una mera questione di brand, lascia perplessi che anche il cantautorato e più in generale la canzone d’autore, anche quella ad appannaggio di interpreti autorevoli, non si sia quasi mai, se non proprio mai, interessato alla questione.
Veniamo a te, veniamo a noi. Tu hai quarantotto anni, io quarantasette. Abbiamo esattamente un anno di differenza, anche se a vederci potrebbe sembrare che tu sia mio nipote. Tra noi e il sessantenne Fossati che scrive Un Natale borghese non c’è una grande distanza d’età. Ce n’è sicuramente meno di quanta, per dire, intercorra tra noi e Alessandra Amoroso, per citare un nome che sicuramente ti è caro.
Infinitamente di meno di quella che c’è tra noi e Tony Maiello, per citarne un altro. Ma aspetta, non ho certo deciso di scriverti per invitarti a collaborare con gente nata negli anni Sessanta. Non è questo l’argomento di questo mio scritto, non è argomento che desta in me nessun tipo di interesse, l’anagrafe in sé. Ne desta, invece, il fatto che tu hai una voce importante. Non ti dico nulla di nuovo, lo sai e lo sanno bene i tuoi fan. Hai una voce importante, la sai usare e, proprio grazie a questo tuo talento, potresti avere una credibilità che altri dovrebbero andarsi a cercare facendo assai più sforzo di te. La credibilità, qui torniamo ai versi di Fossati, per raccontarci come sia la vita da uomo adulto, da padre di famiglia, da quasi cinquantenne che guarda alla vita, non può e non deve essere altrimenti, con lo sguardo di chi ha già compiuto una fetta importante di vita, salvo miracoli presumibilmente anche la parte più lunga della vita.
Il tuo saper usare la voce come pochi, forse come nessuno, è stato oggetto di un grande lavoro da parte del produttore del tuo ultimo album, Michele Canova. Un produttore, anche qui non dico nulla di nuovo, che ritengo responsabile di buona parte delle brutture che hanno abbassato sensibilmente il livello qualitativo della nostra musica leggera. Con lui sei riuscito a tirare fuori registri che non ti si riconoscevano, hai saputo metterti al servizio delle canzoni, tendendo a nasconderti, apparentemente, ma giocando degli assi notevoli, per chi la musica la ascolta con attenzione.
Il punto, però, sono le canzoni. Il mio non scrivere del tuo album, ti dico una cosa che ti risulterà evidente, è stato letto da molti addetti ai lavori come una stroncatura. La stroncatura che non avrei voluto fare a un artista notoriamente mio amico. Una sorta di cortesia affettuosa. In realtà non ho scritto del tuo album per una difficoltà, che ora cerco di mettere in queste parole. La difficoltà di chi sente un proprio coetaneo cantare parole che si concentrano sui sentimenti con lo sguardo di chi si vede o viene visto come un giovane. Noi non siamo giovani. Non siamo ragazzi.
Portare i capelli lunghi, nel mio caso indossare felpe, nel tuo camice sbottonate e bracciali, non cancella il fatto che siamo uomini di mezza età, che un tempo avremmo quasi cominciato a pensare alla pensione, avessimo avuto un lavoro normale. Da te mi aspetto canzoni che parlino di noi, parole adatte a raccontare anche i sentimenti, certo, ma con lo sguardo di chi non può continuare a confrontarsi con la realtà come a una figurina bidimensionale. Francesco, come guardi oggi ai sentimenti, oggi che sei un uomo, Santo Iddio, che hai due figli, che non puoi non fare i conti col tuo corpo che è cambiato, con i ritmi che sono diventati differenti, con le prospettive che sono diventate differenti. Anche nel rivolgersi al mondo femminile, suppongo, con una certa dose di certezza, la più parte del tuo pubblico.
Perché non provi a raccontare le donne non come ragazze, ma come donne, appunto. Cresciute. Mature. Vedi, anche tra chi come noi potrebbe, anagrafe alla mano, essere già nonno, si guarda al mondo delle quarantenni, per non dire delle nostre coetanee, a volte parlandone come delle Milf. Un oggetto del desiderio, quindi, ma che, disconoscendo l’origine pornografico del termine, che le voleva in qualche modo oggetto del desiderio degli adolescenti, Cougar con figli, misto di esperienza e dotate di una fisicità matura, più “abbondante”, più morbida, volendo. Una ragazza di trentacinque anni diventa immeditamente Milf. Anche in assenza di figli. Il che riporta al centro la questione dell’assenza di maturità, della negazione dell’invecchiamento.
Raccontare come un uomo guardi a una donna sua coetanea con passione, per dire, avrebbe sicuramente un impatto notevole nell’immaginario comune. Specie se a farlo è un artista come te, dotato di una vocalità credibile, importante. Raccontare, non dico spiegare, perché non sei un cronista, ma un cantante, che i sentimenti, gli affetti, il sesso cresce e matura con il passare degli anni farebbe di te un quasi cinquantenne consapevole, risolto. Sentirti cantare i versi scritti da un ventenne, lo confesso, mi mettono in difficoltà. Perché mi costringono a concentrarmi solo sulla tecnica, notevolissima, ma mi tolgono la magia che invece la musica, il transfer più immediato nel mondo dell’arte, deve avere. Gira voce che andrai a Sanremo. Scelta comprensibile, e probabilmente anche giusta. Ovviamente avrai già consegnato la canzone a Carlo Conti. Ma se così non fosse, ti inviterei, non fossimo ormai troppo a ridosso della data in cui il direttore artistico del Festival annuncerà la lista dei Big, ti inviterei, dicevo, a contattare autori come Ivano Fossati, come Enrico Ruggeri, volendo anche Fabio Concato, al Niccolò Fabi che anni fa scrisse Costruire, o Una mano sugli occhi o a un Pacifico, autore che ha collaborato all’unico esempio concreto di album in cui l’amore maturo era il fulcro delle canzoni, Una bellissima ragazza di Ornella Vanoni.
Tutta gente che è stata ed è in grado di raccontare questi cambiamenti, che è riuscita a approfondire la sfera dell’animo umano, come pochi altri. Contattali, e chiedigli di scrivere per te canzoni che raccontino di te, di noi. Poi contatta un produttore che sia un musicista, un Brando o un Riccardo Sinigallia per dire, e chiedigli di rendere più maturi i tuoi suoni. Affronta la tua età. Non dico che devi arrivare agli estremi di un Roberto Vecchioni, che nel 2007, poco più che sessantenne in Non amo più cantava “Sarà il libro che leggevo/ la canzone che credevo mia/ o sarà semplicemente che il mio pene/ non ha più nessuna fantasia”, canzone dove per altro il professore parlava non con una sua coetanea ma con una ventenne. Non siamo ancora a questo punto, non mi sembra il caso di buttarci così giù. Né dico che devi arrivare al Branduardi del 1994, che in La donna della sera raccontava di una donna con le rughe, così vezzeggiandola: “Il seno che pende di più mi da/ dei seni ritti di ben altra età/ Io mi addormento sopra il tuo sedere/ memoria e vanto di battaglie vere”, perché in quel “vince il tuo inverno sulla primavera” poteva anche nascondersi una passione per le donne mature di chi, Branduardi all’epoca aveva appena quarantaquattro anni, più giovane di noi, guarda alla maturità come un traguardo da raggiungere, più che come l’avamposto della decadenza.
Mi chiedo e ti chiedo, perché non si può da adulti cantare i sentimenti e il sesso, sì, anche il sesso, con i nostri coetanei? Perché le donne di cinquant’anni sono praticamente assenti dalle canzoni? Perché, per dire, se un uomo racconta dell’amore e del sesso lo fa interfacciandosi con una adolescente o una ragazza, ma non con lo sguardo di un Nabokov o di un Moravia, ma semplicemente fingendosi o credendosi a sua volta adolescente o ragazzo?
Non so se queste mie parole ti potranno essere utili. Non so se ti senti, come mi sento io, un uomo che apprezza il fare i conti col proprio passato, sempre pensando al presente e progettando il futuro. So che guardando mia moglie, la donna che sta con me da quasi trent’anni, non riesco a non vederla più bella di quanto già non fosse a diciott’anni, e non riesco a guardare all’essere invecchiati insieme, cresciuti insieme, toh, abbia reso anche il modo in cui ci si guarda più vivo.
Magari questo mio parlare a voce alta, questo mio evocare una canzone, una serie di canzoni che cantino non più solo la giovinezza, ma anche l’età adulta, questo mio auspicare, per dire, un tuo duetto cone una Paola Turci, o una Tosca, per citare due voci importanti, invece che un nuovo lavoro con la Amoroso o, non voglia Iddio, con una Emma, sarà solo il frutto di un vaneggiamento momentaneo. In caso, non ti crucciare, fai conto che io non ti abbia scritto niente. Magari a leggere queste parole sarà un qualche tuo collega, un Biagio Antonacci, una Fiorella Mannoia, e saranno loro a fare i conti con la loro anagrafe. O magari non le leggerà nessuno, e allora pazienza. Io le scrivo a te perché a te tengo. Mi piacerebbe vederti come un novello Tom Waits, o Nick Cave, capace di fare i conti con l’anagrafe senza per questo minimamente vedere intaccato il tuo status di artista, in qualche modo fuori dal tempo con cui fanno i conti tutti gli altri.
Ligabue, con cui ho avuto piacere di chiacchierare qualche giorno fa, nel suo ultimo lavoro ha provato a raccontare la storia di un uomo considerato, senza avergliene chiesto conto, un ragazzo (“Mi chiamano tutti Riko/ Mi chiamano ragazzo, non guardano l’età”). Quando a giugno mi farai gli auguri per i miei quarantotto anni e io, dieci giorni dopo, te li farò per i tuoi quarantanove, forse, queste parole potrebbero tornati utili.
Con affetto, Michele