Possiamo chiamarlo il canto del cigno dell’ambientalismo di Obama. A dispetto degli altolà del team di transizione di Trump, gli americani sono arrivati alla Cop22 di Marrakesh in forze e con un segretario di Stato, John Kerry, che ha confermati gli impegni degli statunitensi. Ma se gli americani non arretrano, è la Cina che sta avanzando, a dir poco, sfruttando l’occasione per presentarsi al mondo, a partire dall’Africa, come il nuovo protagonista delle energie rinnovabili. Mentre l’Europa si muove come sempre in ordine sparso ma porta i suoi leader a tenere discorsi. Tutti tranne il premier italiano Renzi. Ne abbiamo parlato con Andrea Di Stefano, direttore del mensile Valori, voce nota di Radio Popolare e inviato a Marrakesh anche per conto della società Novamont, di cui cura le relazioni esterne.
Che clima c’è alla Cop22 di Marrakesh? Prevale la preoccupazione dopo l’elezione di Trump o c’è un clima costruttivo che non dà troppo peso alle presidenziali americane?
Ho trovato un clima molto costruttivo, soprattutto da parte dei Paesi in via di sviluppo. Questa Cop è dedicata al tema della mitigazione dei cambiamenti climatici e alla possibilità che i Paesi in via di sviluppo possano incrociare innovazioni tecnologiche e scelte industriali di natura diversa. Tutto questo marcia in modo autonomo rispetto alle dinamiche di politica internazionale. Il convitato di pietra, Trump, pesa più per gli occidentali e pesa molto in una chiave geopolitica.
Facciamo un passo indietro. A cosa serve la Cop22? È stata raccontata dai media soprattutto come una ratifica degli accordi dello scorso anno a Parigi.
Il punto di vista mediatico più evidente è quello relativo alle ratifiche dell’accordo di Parigi e lo stesso sito ufficiale della Cop viene aggiornato di ora in ora con il numero di Paesi che aderiscono. Ora siamo a 110 Paesi su 190. Ma all’ordine del giorno c’è molto altro, a partire dall’implementazione pratica di alcuni degli impegni assunti a Parigi.
Si parla anche dei soldi per concretizzarli?
Sì. Tra i temi principali, non fosse altro perché siamo in Marocco, c’è il fondo per i Paesi in via di Sviluppo, che dovrebbe diventare operativo nel 2020 e mettere a disposizione 100 miliardi di dollari per le strategie di mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Da qui a quella data ci sono molte cose da fare e la trattativa è come sempre abbastanza complessa. Ci sono quindi degli elementi di interesse, al di là della rilevanza mediatica che fissa l’attenzione sui molti leader mondiali presenti, da Hollande ad Angela Merkel. Questo dà comunque un’idea del peso che viene messo sul tavolo da alcuni massimi rappresentanti della diplomazia internazionale.
«Se gli Stati Uniti decideranno di cancellare gli impegni presi sul cima lo faranno, anche a costo di conseguenze diplomatiche. La sensazione è però che la posizione di Trump finirà per essere meno tranchant rispetto alle dichiarazioni elettorali, perché sono in gioco molti interessi di natura tecnologica, industriale e geopolitica»
Martedì Hollande ha avvertito Trump che l’accordo di Parigi è irreversibile. Ma davvero la prima potenzia mondiale non se ne potrà uscire con un escamotage, a partire dal ritiro dalla convenzione di Rio?
È evidente che qualche escamotage potrebbero trovarlo. Se gli Stati Uniti decideranno di cancellare o sospendere gli impegni lo faranno, anche se questo avrà conseguenze di natura diplomatica. Qui a Marrakesh si vocifera di moltissime ipotesi, da un decreto presidenziale che cancella la firma di Obama a Parigi alla cancellazione dell’adesione Usa al predecessore di tutto questo, l’accordo del 1992 a Rio de Janeiro. Però la sensazione è che la posizione di Trump dovrà essere commisurata a una serie di fattori di natura tecnologica, industriale e geopolitica. L’impressione è che la linea americana sarà meno tranchant di quanto non si possa pensare basandosi sulle dichiarazioni elettorali, che però abbiamo visto come in altri campi subito dopo il voto sono cambiate.
Ma qual è lo stato d’animo della delegazione statunitense?
È sorprendente. Ci si poteva aspettare una sorta di paralisi della delegazione statunitense visto il risultato dell’8 novembre, invece è successo il contrario. Sembra che sia arrivato un messaggio molto chiaro da Washington, dalla presidenza Obama, di non arretrare di un millimetro e di mettere sul tavolo dei pezzi da novanta. Mercoledì è arrivato John Kerry (che ha detto “Gli americani vogliono mantenere gli impegni”, ndr). La delegazione americana finora non solo ha fatto dichiarazioni molto impegnative, ma ha anche confermato la scelta del segretario di Stato di parlare e confrontarsi con gli altri leader sulle queste tematiche. Obama non arretra, anzi se possibile accelera o comunque fa pesare i suoi impegni e la sua eredità.
Trump aveva avvertito lo staff di Obama di non prendere accordi vincolanti, di limitarsi all’ordinaria amministrazione fino a transizione completata.
Sì, ma il punto è questo: non si tratta di prendere nuovi accordi perché quelli della Cop22 sono in linea con quanto già approvato. Il decreto presidenziale che è in forza degli accordi del 1992 e che ha ratificato l’adesione degli Stati Uniti è del 4 novembre scorso. Un pezzo del transition team sta avvertendo che proprio perché è stato fatto il 4 novembre potrà essere contestato. Però la sostanza è che l’amministrazione vuole lasciare un messaggio politico molto chiaro, anche se non potrà prendere nuovi impegni.
Anche la nomina di un negazionista dei cambiamenti climatici come Myron Ebell come capo provvisorio dell’agenzia per la protezione dell’Ambiente (Epa), per quanto preoccupante non avrà effetti rilevanti?
In questo caso è diverso. Per l’Epa sarà una mazzata. Vedremo all’opera la stessa strategia che l’amministrazione di Bush attuò riguardo alla finanza. La commissione di controllo sui futures e i derivati non aveva neanche le risorse per pagare gli uffici. Che l’Epa possa essere detronizzata può accadere. Che si cancellino anche gli impegni in modo formale potrebbe però non succedere. Anche l’amministrazione Trump dovrà fare i conti con il fatto che oggi negli Stati Uniti le rinnovabili occupano centinaia di migliaia di posti di lavoro. Non è semplicissimo cancellare certe strategie senza considerare le ripercussioni sull’economia interna.
Avranno un ruolo anche i singoli Stati americani, come la California, che potrebbero non seguire l’impostazione federale.
Sì, il governatore (Jerry Brown, ndr) è stato nettissimo: la California non seguirà eventuali cambiamenti di strategia dell’amministrazione federale e continuerà sulla sua strada.
«Ci si poteva aspettare una sorta di paralisi della delegazione statunitense visto il risultato dell’8 novembre, invece è successo il contrario. Sembra che sia arrivato un messaggio molto chiaro dalla presidenza Obama, di non arretrare di un millimetro»
Una delle letture che si sta dando di questa fase è che se gli Stati Uniti tirano il freno, la Cina è pronta a fare man bassa delle opportunità relative alle energie rinnovabili. Si sente anche a Marrakesh questa sensazione?
La Cina è più che pronta. Non è una sensazione, è qualcosa di molto palpabile. Quarantotto ore dopo il voto americano un comunicato ufficiale della Cina ha ribadito che Pechino non solo intende confermare gli impegni assunti alla Cop21 ma anche aumentare gli sforzi sul lato finanziario. Il messaggio è arrivato molto chiaro: se gli americani frenassero i cinesi sono sicuramente pronti a giocarsi questa partita a livello internazionale. In particolare verso i Paesi africani, che sono da anni un target politico dei cinesi.
Se in questi anni il prezzo dei moduli fotovoltaici si è abbassato drasticamente, così come si sta abbassando quello delle batterie, è anche perché è esploso il mercato interno americano. Se dovesse frenare sarebbe un problema anche per la Cina o il mondo è molto grande e il mercato si espande al di là degli Stati Uniti?
I cinesi come sappiamo sono leader nella produzione dei pannelli fotovoltaici a livello mondiale e non hanno come mercato solo quello americano. Certo il mercato statunitense è e rimane molto interessante. Ma la crescita è diffusa anche altrove. Il Paese che sta ospitando la Cop, il Marocco, sta sviluppando uno dei più grandi progetti di solare a concentrazione del mondo. È nel deserto, a pochi chilometri da Marrakesh ed ed è finanziato con un contributo consistentissimo dalla Banca Mondiale. Dovrebbe garantire 2 gigawatt di potenza di energia elettrica. I cinesi hanno inoltre una prospettiva interna di crescita: hanno fatto un’accelerazione spaventosa, in soli due anni hanno recuperato un gap enorme e sono arrivati a essere il primo Paese per installato a livello mondiale. Probabilmente spingeranno ulteriormente, soprattutto verso i Paesi africani, per lo sviluppo di tutto il settore dell’energia rinnovabile e delle tecnologie pulite.
L’Europa si sta distinguendo in positivo o in negativo?
L’Europa in questa fase c’è, seppure in modo un po’ timido. È significativo che ci siano tutti i primi ministri dei principali Paesi europi, salvo Renzi. Martedì c’è stato Hollande, è arrivata Angela Merkel, arriverà Rajoy. C’è anche Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, e rappresentanti della Commissione. L’Europa per molti anni ha avuto una leadership incontrastata sui cambiamenti climatici e sugli obiettivi del taglio delle emissioni. L’ha un po’ raffreddata, adesso si tratta di capire se l’elezione di Trump tornerà a dare spazio alla strategia e alla tecnologia europea. A vedere gli annunci tedeschi viene da pensare di sì, anche se sembrano finalizzati alle politiche interne in vista delle elezioni. La Germania si è presentata con un piano veramente ambizioso, di decarbonizzazione dell’economia tedesca entro il 2050.
Non c’è Renzi ma noi italiani che presenza abbiamo?
Una presenza c’è. Il ministro dell’Ambiente sarà qui tutta la settimana, ha parlato mercoledì 16 in plenaria. Non c’è un gran padiglione, in confronto a quello dei francesi, ma d’altra parte anche i tedeschi hanno una visibilità limitata, eppure sono molto determinati. Più che una presenza massiccia sarebbe importante che da parte dell’Italia ci fossero messaggi più chiari su alcune strategie.
«Il messaggio mandato dai cinesi è molto chiaro: se gli americani frenassero i cinesi sono sicuramente pronti a giocarsi questa partita a livello internazionale. In particolare verso i Paesi africani, che sono da anni un target politico di Pechino»
La lettura che è stata data anche da Trump, di un conflitto tra il rispetto degli obiettivi sulle emissioni climatiche e gli interessi della classe media, sembra essere smentito da questi annunci tedeschi.
Assolutamente sì. Certo, se si prende un’ottica di periodo breve e si parte dai costi bassi di petrolio e shale gase, i costi sono potenzialmente più della convenzienza. Ma i costi ambientali sono ormai insopprimibili. Qui uno dei dibattiti più aperti e più frequenti è quale sia il costo degli impatti dei cambiamenti climatici. Penso che sia solo una questione di tempo. Il tema diverrà dominante e a quel punto anche queste presunte discussioni sulla questione dei costi e degli incentivi sono destinate a essere travolte. Le dinamiche sono sempre più dinamiche economiche, non di natura ambientale.
L’economia non cambierà strada, se cambierà il contesto politico?
Ho l’abitudine da tempo di guardare i futures del petrolio. Sono rimasto sorpreso positivamente del fatto che dopo le elezioni americane i futures non siano saliti e che il prezzi del petrolio sia rimasto attorno a 45 dollari al barile, molto lontano dalla soglia psicologica dei 50 dollari e ancor più da quella del 100 dollari. Questi segnali sono più importanti di tante dichiarazioni. Vuol dire che cresce l’eccedenza di fonti fossili e che i prezzi sono bassi e rimarranno bassi a lungo. Questo ha delle conseguenze anche molto rilevanti per le scelte di investimento.
Neanche il traguardo al 2020 del fondo da 100 miliardi non viene messo in discussione nel nuovo mondo con Trump presidente?
No, per ora no. Qui il dibattito vero è se anticipare al 2018 alcuni pagamenti. Alcuni vorrebbero accelerare, altri sono più cauti. Ci sono poi altre emergenze che stanno posizionando il dibattito. Il tema, per esempio, dell’innalzamento delle acque dei mari, con la possibile sommersione di interi territori, a partire isole minori. In prima fila nei convegni c’è sempre il primo ministro delle isole Fiji, che rischiano di scomparire in tempi brevissimi. Non a caso il primo ministro delle Fiji sarà il presidente, assieme a quello finlandese, della Cop dell’anno prossimo, dedicata agli oceani. Ci sono quindi dei temi vanno ben oltre all’atteggiamento americano.
Ma nella città di Marrakesh, al di là dei meeting, c’è interesse di tutto questo?
Molto, ed è qualcosa che mi ha lasciato piuttosto sorpreso. Qui nella green zone si vede chiaramente come il tema dell’energia rinnovabile stia impattando sulle scelte della società civile marocchina. C’è molta vitalità e molta presenza. Ci sono moltissimi volontari, moltissime iniziative che mettono assieme giovani, università, nuove iniziative imprenditoriali. L’impressione è che ci sia uno sforzo consistente e concreto.