Ma quando si quota in borsa Eataly? La domanda ormai è un classico del giornalismo finanziario italiano. In anni in cui di vere quotazioni non se ne sono viste, men che meno nell‘alimentare, la curiosità sull’unica azienda che ne ha il potenziale si è man mano ingigantita. A metterci lo zampino è stato lo stesso fondatore, Oscar Farinetti, che ha via fissato delle date: prima il 2015, poi il 2016, poi il 2017, il 2018. Come un miraggio nel deserto, l’obiettivo si spostava, ma l’obiettivo di Farinetti era sempre centrato: far parlare dell’azienda, far capire che aveva la statura per quotarsi, che era solo questione di scaldare i motori. A condire il tutto c’erano gli annunci sulla volontà di vendere le azioni (il tetto è al 30% della società) a moltissime famiglie italiane e ai quasi seimila dipendenti. Questi messaggi – a cui il presidente esecutivo Andrea Guerra ha voluto mettere un taglio il 18 novembre parlando di “quotazione a data da destinarsi” – avevano anche il merito di mettere in secondo piano un altro fatto: che Eataly era ancora una startup, che era molto giovane (a gennaio saranno dieci anni dall’apertura del primo store, al Lingotto di Torino, che a breve avrà un restyling), relativamente piccola e relativamente poco organizzata. Lo era, e in parte è ancora, assicura chi ha avuto modo di lavorare con la società. Che alcuni processi possano migliorare lo dice una vicenda locale, quella di Trieste, dove si mugugna per i successivi rinvii dell’apertura di un locale nell’ex Magazzino Vini: l’opening è stato spostato più volte, dal Natale 2014 fino al gennaio 2017. Il progetto è stato curato da un immobiliarista, responsabile locale della gestione, e dalla Fondazione CRTrieste, proprietaria dell’immobile. I ritardi fanno parte del retail – e Eataly è abbonata – ma l’eccesso di delega può peggiorare le cose.
Eppure questi sono anche i mesi di una nuova ondata di aperture: a New York, con il secondo negozio inaugurato ad agosto al terzo piano del nuovo 4 World Trade Center. A Boston, dove aprirà il 29 novembre su 4.200 metri quadrati dedicati soprattutto al pesce, con 500 dipendenti (una cifra che ha fatto entusiasmare il Boston Globe). A Copenhagen, dove il 17 novembre si è insediato nel famoso centro commerciale Illum. Pietre miliari che seguono quelle di Monaco di Baviera, San Paolo, Dubai e Istanbul e che anticipano quelle di Los Angeles, Las Vegas e Toronto. Los Angeles, in particolare, è una di quelle location da tenere d’occhio, come fece capire nel 2014 Luca Baffigo Filangieri, uno dei tre amministratori delegati di Eataly, assieme a Nicola e Francesco Farinetti, figli di Oscar (che ha lasciato le cariche e ha tenuto solo quelle in alcune società controllate). Baffigo Filangieri annunciò che la quotazione sarebbe avvenuta una volta che l’espansione avesse toccato la costa Ovest degli Stati Uniti e l’Asia. Considerate le aperture nel frattempo avvenute a Istanbul, Dubai e Seul (oltre a quelle “storiche” in Giappone), si tratterebbe di aspettare l’autunno 2017, con lo sbarco nella città degli angeli. C’è però un altro aspetto da vedere, quando si parla di quotazione di Eataly, ed è un numero: 700 milioni, il valore del fatturato raggiunto il quale scatterebbe la quotazione. Questa cifra era stata indicata già tre anni fa da Linkiesta e oggi trova una nuova conferma da un report pubblicato il 23 novembre dalla banca d’investimento Intermonte Sim.
Il report parla di una quotazione che avverrà “ragionevolmente” nel 2018 o 2019. A guardare le aspettative sui prossimi anni si capisce anche perché: nel 2018 il valore della produzione è stimato in 750 milioni. Considerato che il 2016 dovrebbe chiudere a quota 420 milioni, con un incremento del 6% rispetto all’anno precedente, come si possono considerare credibili gli incrementi attesi di oltre il 30% all‘anno nel 2017 e 2018? La risposta è duplice: si deve tener conto delle nuove aperture, da cui sono attesi ricavi molto importanti; e del fatto che il dato del 2015 era pompato dalla presenza di 20 ristoranti regionali (a rotazione mensile) sotto il cappello di Eataly all’interno dell’Expo di Milano. Guardando il report di Intermonte viene dipinta una società che non avrà grossi problemi: l’Ebitda (il margine operativo lordo) è visto in crescita fino a 71 milioni e il margine Ebitda/fatturato salirà dal già alto (per il mondo del retail) 7,3% al 9,5 per cento. L’utile netto dovrebbe triplicare rispetto all’attuale, toccando i 15 milioni di euro nel 2018.
Intermonte parla di una quotazione che avverrà “ragionevolmente” nel 2018 o 2019.
L’unico dato peggiorato sarebbe quello della posizione finanziaria netta, che a causa degli investimenti ingenti sarebbe negativa per 45 milioni. Nel 2015 era invece positiva per 25 milioni. Ecco, quando si parla della mancata quotazione, si dovrebbero tenere in considerazioni queste circostanze: con i 120 milioni arrivati nel marzo 2014 da Clubitaly, la necessità di liquidità è diminuita, sebbene serva in prospettiva per continuare l’espansione all’estero. Clubitaly è un fondo partecipato al 27,5% da Tamburi Investiment Partners e che conta al suo interno vari finanziatori, tra cui alcune holding di società alimentari. Ha rilevato da Eatinvest srl, cioè dalla famiglia Farinetti, il 20% della società. C’è un poi una considerazione scontata: la condizione del mercato non è stata propizia agli Ipo, che infatti si sono quasi azzerati (l’eccezione è Technogym) dopo un anno iniziato con la tempesta sulle banche italiane e proseguito trainato in basso dal settore bancario. «So che ci sono molte operazioni di Ipo in pipeline e che in Borsa stanno ad aspettare il momento giusto», dice Manuela Geranio, ricercatrice del Dipartimento di Finanza dell’Università in Bocconi. «Inoltre in questo momento con i tassi bassi le aziende di qualità non hanno problemi ad avere credito dalle banche o capitali dai fondi». Quando si tratterà di quotarsi, sarà probabilmente per permettere l’uscita di qualche socio (il fondo o parte della quota della famiglia) e per i vantaggi di immagine di essere sempre tra i titoli citati dalla stampa.
Ma c’è anche dell’altro dietro a questi rinvii? Secondo alcuni esperti contattati da Linkiesta sì, e ha a che fare con il management e la governance della società. «Eataly è un’azienda di nuova generazione: come nella Silicon Valley, prima viene l’idea e solo dopo la forma dell’idea, cioè la struttura aziendale – spiega Carlo Meo, amministratore delegato di Marketing & Trade, società di consulenza nel settore del retail -. L’idea è stata dirompente, hanno intercettato per primi il cambiamento dei consumi del mondo food, capendo che i consumatori non vogliono limitarsi a riempire il frigo, ma vogliono avere qualcosa di unico e vivere un’esperienza. Ma si sono mossi senza avere dietro una struttura da retail». Oggi, spiega, il retail, che sia quello di Esselunga o di Ikea, è un mondo di regole, organizzazione, logistica. Se si pensa che nei primi Eataly i prodotti venivano consegnati dai singoli produttori di prodotti tipici, il salto che è in corso è notevole. E carpiato, perché la doppia formula, negozio-ristorante, rende la gestione particolarmente complicata. L’introduzione dei servizi online, di recenti estesi a Milano anche alle consegne in giornata, alza ancora di più l’asticella. Concorda Sandro Castaldo, professore ordinario di Economia e gestione delle imprese alla Bocconi e autore di numerose pubblicazioni sul retail: «Farinetti è un genio, è stato in grado di far diventare alla moda mangiare il Culatello di Zibello e gli altri prodotti tipici. Ma è un imprenditore e nel business ha portato un approccio imprenditoriale, non manageriale. Prima di andare in Borsa, l’azienda dovrebbe mettere per esempio a posto i sistemi informativi e industrializzare il servizio».
Il rischio, se si trascurassero questi aspetti, «è che ci possa essere un buco nei conti molto grosso». Industrializzare il servizio non significa creare delle repliche senza anima e contraddire lo spirito di Eataly di tematizzare ogni singolo punto vendita. «Un locale può continuare a essere diverso dall’altro – continua Castaldo -. Ma invece di esserci un forte adattamento al singolo punto vendita, dovrebbero esserci dei processi replicabili e poi un “vestito” diverso per ogni Eataly». Secondo Carlo Meo la chiave è differenziare tra i meccanismi su cui è poco sensato portare innovazione, come la logistica, e quelli in cui vale la pena differenziarsi. Mentre sembra essere solo in parte fondata la critica che a Farinetti faceva uno dei suoi “rivali”, il patron di Esselunga Bernardo Caprotti: che con punti vendita molto distanti e polverizzati fosse impossibile far quadrare i conti. «Loro non sono comparabili con un normale supermercato – spiega Davide Cavalieri, titolare della società di consulenza Cavalieri Retailing, specializzata nel retail e ristorazione -. Hanno un mix di scaffale e somministrazione unico al mondo, che consente margini superiori. Non lo vedo distante da Harrods». I competitor indicati da Intermonte sono le catene Usa Whole Food e Sprouts Farmers Markets.
«Eataly è un’azienda di nuova generazione: come nella Silicon Valley, prima viene l’idea e solo dopo la forma dell’idea, cioè la struttura aziendale»
Ci sono altri punti che servono per il passaggio alla “maturità”. Il primo ha a che fare con le location. C’è poco da dire sulla capacità di Farinetti di individuare posti dalle grandi potenzialità, trovare il modo di pagarli pochissimo (anche grazie alla capacità di tessere relazioni politiche) e di valorizzarli, che si parli della stazione Ostiense di Roma o del teatro Smeraldo di Milano. Di più: gli Eataly diventano dei luoghi d’attrazione e turismo, come il primo store di New York, nel Flatiron, visitato da oltre cinque milioni di visitatori ogni anno. Ma l’impressione è che in alcuni casi siano state colte le opportunità che sono capitate anche quando il territorio non era sufficientemente grande, come a Piacenza. Alcune location sembrano avere poco senso, se non dal punto di vista politico o relazionale. Un’intervista a Farinetti circa una prossima apertura a Mantova sembrerebbe confermare il metodo: la chiamata di un sindaco, la proposta di una location e quindi la decisione di aprire. O potrebbe anche esserci una strategia più difficile da cogliere: è lo stesso Farinetti a parlare di un nuovo piano per la provincia italiana da attuare dal 2019. Di certo in Italia i prezzi degli affitti rimangono stracciati se non nulli – a Torino come a Bari, dove Eataly è stato aperto nella Fiera del Levante con una licenza fieristica provvisoria rinnovabile – e su tutti vale un numero: se il costo degli affitti sul fatturato nella media del retail è del 10-12%, per Eataly Distribuzione srl (solo i negozi italiani) questo rapporto è del 5% (è considerata la voce di bilancio “costi per godimento di beni di terzi”). Un vantaggio sui cui però all’estero è meno facile contare.
In Italia i prezzi delle locazioni rimangono stracciati se non nulli: se il costo degli affitti sul fatturato nella media del retail è del 10-12%, per Eataly Distribuzione srl questo rapporto è del 5%
Un altro aspetto da non trascurare per Eataly è quasi paradossale: la difesa del marchio. Non si parla di difendersi dalle copie (che, anzi, portano lustro agli originali) ma di non svilire un brand così forte con passi falsi. L’attenzione deve essere soprattutto legata ai locali in franchising. Il secondo locale di Roma, Eataly Repubblica, per esempio, è stato dato in gestione al gruppo Ethos (la formula è quella “Eataly incontra”). A un rapido sguardo alle recensioni dei clienti su Tripadvisor, il commento più ricorrente è “da Eataly ci si aspetta di più”. Non a caso una delle catene vendute meglio (a Unilever), le gelaterie Grom, si sono sempre rifiutate di passare al franchising, almeno in Italia. Per Eataly di necessità di tutelare il marchio si parla spesso anche a proposito del punto vendita aperto in un’area di sosta Autogrill, a Secchia Ovest. «Il concept è forse troppo alto, più adatto alla città che a un’area di sosta», sottolinea Davide Cavalieri. Il negozio in realtà polarizza i clienti, tra chi sa già cosa aspettarsi e chi rimane scioccato dai prezzi alti.
Tra i passi falsi si annovera il pasto nel formato “bento box” a bordo dei treni Italo di Ntv, ritirato dopo qualche anno dopo le stroncature per i menu con i “vasetti mignon” venduti a 18 euro. Anche la presenza di prodotti non premium o comunque trovabili altrove va gestita con oculatezza. La cooperativa Nova Coop ha indicato la presenza di prodotti basici come causa della rottura con Eataly e l’uscita dall’azionariato. Il sospetto è che c’entrino altre questioni (come la presenza di un format simile a Eataly, Fiorfood, in Piemonte gestito dalla stessa Nova Coop). Ma comunque la vicenda segnala un problema. Non di “etica” verso il consumatore – come pungolava Caprotti e dopo di lui alcune inchieste giornalistiche – ma di immagine. «Farinetti è stato bravo a creare un contesto, dove è naturale pagare di più un prodotto – spiega Meo -. È come quando in un ristorante di lusso fanno pagare di più lo stesso vino che in una pizzeria, nessuno si lamenta. Nel mondo del passato contava il prodotto, in quello di oggi conta la “food experience”». Sul punto, come ricordato al World Business Forum a Milano da Martin Lindstrom, Whole Foods ha dato l’esempio: quando si presentò l’occasione di introdurre anche prodotti di qualità inferiore si rifiutò sempre con coerenza.
«Farinetti è un genio. Ma ha un approccio imprenditoriale, non manageriale. Prima di quotarsi l’azienda dovrebbe mettere a posto i sistemi informativi e industrializzare il servizio». Il rischio, se si trascurassero questi aspetti, «è che ci possa essere un buco nei conti molto grosso»
L’ultimo punto su cui vengono fatti notare spazi di miglioramento è quello del personale, soprattutto per quanto riguarda la formazione al servizio. Su questo, però, si segnalano dei passi avanti. «Eataly è un’azienda giovane, in tutto, ed è cresciuta molto velocemente. Ma si sta organizzando – commenta Christian Sesena, segretario nazionale della Filcams Cgil che segue la società -. Sulla formazione stanno lavorando, stiamo lavorando insieme. È una situazione in fieri, ma c‘è un confronto avviato e interessante su salario, welfare, orari e condizioni di lavoro. Per quel che attiene ai nostri ambiti, posso parlare di regolari e corrette discussioni sindacali, migliorate dopo il contratto integrativo firmato un anno e mezzo fa, che giudichiamo positivamente».
Un punto di domanda rimane poi il progetto Fico, a Bologna. Il grande mercato contadino da 100 milioni di euro di investimento (di cui 55 messi dal Comune di Bologna, come ricordato da Dissapore), con 80mila metri quadrati di terreno, di cui 10mila per frutteti, parchi e pascoli dimostrativi, e duemila aziende coinvolte. La Disneyworld del cibo davvero una scommessa: potrebbe essere l’ennesimo colpo di genio destinato a spiazzare tutti o qualcosa di più modesto, come sospetta Bloomberg. Molto dipenderà dalla credibilità e dalla reale attrattività (significativo che si stiano attrezzando rappresentazioni virtuali, per alzare l’attenzione dei bambini). Anche in questo caso i rinvii sono stati numerosi, se si pensa che i primi annunci parlarono di un’apertura in corrispondenza con la fine dell’Expo e che ora si parla di settembre 2017. Il progetto non è però solo farina del sacco di Italy: è nato su iniziativa del Centro AgroAlimentare di Bologna, o CAAB, e gestito di Eataly World, società costituita da Eataly e Coop.
Eataly deve stare attenta a non svilire il marchio, con franchising non altezza dei negozi principali e inserendo prodotti di fascia bassa nei propri scaffali
Ci sono però molti altri temi su cui gli aspetti positivi si possono riconoscere senza riserve. La qualità dei “cibi alti” e dell’esperienza di shopping. I numeri incontestabili dei negozi americani, su tutti New York – gestiti con i partner Mario Batali, Joe Bastianich e Lidia Matticchio Bastianich. Il fatto che, se altri imprenditori hanno approfittato di facilitazioni per restare in mercati protetti, Farinetti è stato l’unico dei distributori a varcare la frontiera e a farlo con coraggio. E soprattutto la creazione di un’idea forte: «Quando faccio selezione guardo molto all’idea e poco al business plan», ha detto recentemente alla Bocconi Diego Piacentini, ex numero due di Amazon ora chiamato dal governo come commissario dell’Agenda Digitale. Anche l’intuito non va sminuito: chi ha conosciuto Steve Jobs racconta di come i dati fossero guardati ma che le decisioni fondamentali arrivavano dalle sensazioni personali del capo. Che aveva tenuto una struttura snella di dirigenti con cui rapportarsi. C’è da aggiungere che numerosi tentativi di imitazione sono finiti male. Uno su tutti Eat’s Food (gruppo Coin), che in Veneto e nell’ex cinema Excelsior di Milano (location molto alla “Eataly”) aveva grandi ambizioni subito ridimensionate fino alla chiusura. Anche il Mercato Metropolitano di Milano ha dovuto chiudere i battenti poco dopo la fine di Expo, mentre sono ancora da verificare i dati del Mercato del Duomo aperto da Autogrill a Milano e punti vendita di avanguardia come l’Iper nello shopping center Il Centro di Arese (Milano) o i nuovi formati con alto contenuto di servizio di Carrefour. «I francesi sono rimasti ammaliati da Eataly», commenta Carlo Meo.
L’ultimo aspetto positivo si chiama Andrea Guerra, presidente esecutivo da ottobre 2015, dopo un decennio come ad di Luxottica e un anno da consigliere di Matteo Renzi. Se è stato lui a essere chiamato per mettere a posto la “startup” Eataly non è solo perché è considerato un top-player tra i manager italiani. «Nessuno si ricorda che da amministratore delegato di Luxottica gestiva una rete di settemila negozi, è un vero esperto del retail – dice Sandro Castaldo -. Inoltre sa portare il prodotto all’estero. Meglio di lui era difficile trovare».