Si intitola My way, Berlusconi in his own words, è il documentario costruito intorno all’omonimo libro-intervista sulla vita del Cavaliere pubblicato da Alan Friedman poco meno di un anno fa, ed è esattamente quello che promette di essere: l’autobiografia di un ego ipertrofico che si incensa davanti a un giornalista quasi costantemente sdraiato e accomodante come Alan Friedman.
My way è un documentario che somiglia molto al suo protagonista: è brutto e ha spesso esiti che possiamo definire “trash” senza tema di smentita. Eppure, ancora una volta come il suo protagonista, è significativo. Estremamente significativo. Tanto da valere la pena di non farsi spaventare dalla sua ingenua manifattura e vederselo fino in fondo, senza giudizi a priori.
Questo viaggio di un’ora e mezza dentro l’ego di Silvio Berlusconi ci fa scoprire qualcosa che il nostro ultraventennale antiberlusconismo politico ci ha sempre impedito di vedere: la dimensione straordinaria, in senso strettamente etimologico e privo di giudizio di valore, di “fuori dall’ordinario e dal consueto”, di un uomo che ha cambiato l’Italia in profondità e in maniera irreversibile.
E il premio finale è prezioso: è riuscire a vedere Berlusconi senza il filtro del giudizio politico e morale, quello che siamo tutti abituati ad avere sugli occhi e che, seppur legittimo, sta cominciando ad essere fuori tempo massimo per un uomo che, a scanso di un incredibile colpo di coda primaverile (che in fondo non è escludibile a priori, come abbiamo imparato a capire negli ultimi vent’anni) si sta arrendendo all’idea di doversi consegnare alla Storia e al suo giudizio.
Il personaggio che ci troviamo di fronte è veramente fuori dalla norma. E spiace dar ragione a uno come Fedele Confalonieri — spiace proprio — ma quando, intervistato da Friedman, spiega che “al di là del giudizio che se ne può dare, che sia stato bravo oppure no, ma quello che ha fatto è stato straordinario”, è proprio difficile dargli torto senza sentire di non essere sinceri.
Perché è vero: Silvio Berlusconi è stato un personaggio completamente fuori da ogni regola e, per questo, eccezionale. Al di là dell’immensa questione del rapporto tra Berlusconi e la Mafia — totalmente obliterata da Alan Friedman — l’indubbia qualità che, da antiberlusconiani dobbiamo riconoscere a Berlusconi è una qualità che nulla c’entra con la politica. È quella sua capacità spiazzante come una sparigliata a scopone scientifico di agire oltre ogni regola e struttura. Quella sua capacità di rompere l’ordine del mondo che si è ritrovato davanti, la cui cifra specifica era la Massa. Quella che all’inizio del secolo faceva le rivoluzioni e che poi, nel dopoguerra, tramutata in massa di consumatori, ovvero in pubblico, era pronta per essere cavalcata. È questo quel che Berlusconi ha saputo fare come nessun altro al mondo: e non solo l’ha saputa cavalcare, l’ha anche accompagnata alla morte sfruttando fino all’ultimo la sua potentissima inerzia, vincendoci non una,ma tre elezioni in Italia.
Elezioni, ovvero vita politica. Ecco il tasto dolente. Sì, perché Berlusconi, e questo lo dovranno ammettere i berlusconiani, è stato un pessimo politico: incapace di scegliere i propri collaboratori e di formare una classe dirigente credibile; egocentrico e fiducioso nella propria capacità di comando anche contro la realtà che gli si schiantava addosso e, da ultimo, completamente sprovvisto del benché minimo rispetto per la vita istituzionale di una democrazia.
Eppure anche qui, in un contesto di quasi totale impreparazione per il ruolo istituzionale che ha ricoperto in Italia, Berlusconi è stato l’ultimo di un’epoca che in Europa si è chiusa all’inizio di questo millennio: l’epoca della real-politik. È strano, ma per quanto in balia di una costante improvvisazione — che poi è alla base della sua capacità spiazzante che lo ha reso grande nel mondo della pubblicità e delle telecomunicazioni — e forse anche senza rendersene completamente conto, Berlusconi è stato uno degli ultimi uomini di potere europei a fregarsene della morale e a tentare di agire in politica estera seguendo la sana e vecchia real-politik, soprattutto nel suo avvicinarsi alla Russia di Putin, nel suo giudizio severo per la guerra in Iraq e persino nella sua difesa di Gheddafi.
Quale sarà il giudizio che la storia assegnerà a Silvio Berluscono è ancora presto per dirlo. Anche perché la sua parabola politica, lo abbiamo imparato in questi anni, si potrà dire finita soltanto il giorno del suo funerale. Eppure, la sensazione è di quelle che non facili da accettare, soprattutto se — come chi scrive questo articolo — si è cresciuti nel Ventennio che porta il suo nome. Eppure bisogna prepararsi, perché la Storia, che se è fatta per bene deve saper giudicare a freddo e senza nessun tipo di moralità, è probabile che lo assolverà.