Sto lavorando duro per prepararmi al mio prossimo errore
(Bertold Brecht)
Noi tendiamo a stigmatizzare, reprimere e punire l’errore. L’etimo “errare” rimanda alle conseguenze della violazione della regola da parte di un membro della comunità: la condanna all’esilio, il distacco dalla comunità di appartenenza, l’uscita di scena.
Ho iniziato a occuparmi di errore osservando nei nostri training la reazione delle persone di fronte alla scoperta della propria imperfezione, che si manifesta proprio attraverso la commissione dell’errore: profondo fastidio, per non dire disagio.
Non sono degno di amore
L’errore è il distacco dalla regola, è il “non essere come gli altri ci vogliono”, è segno tangibile che non siamo stati capaci di fare qualcosa: insomma, la prova della nostra imperfezione. Ed ecco la corsa a negarlo, giustificarlo o, se ancora in tempo, nasconderlo.
Risuonano alle nostre orecchie i richiami alla saggezza popolare, espressioni come “sbagliando si impara”: noi adulti no, non possiamo sbagliare. Ed ecco che questo proverbio diventa falsamente consolatorio e apparentemente adatto solo al mondo dell’infanzia. Come ha scritto Paolo di Stefano in un articolo dedicato all’errore apparso tempo fa sul Corriere della Sera “L’errore aiuta a crescere, specie se è figlio della curiosità, cioè della voglia di conoscere, quella di Ulisse. Perché non si può negare che spesso le grandi imprese, come si diceva, sono figlie di una svista, di una distrazione. In fondo, Dante apre la Commedia con questa ammissione. Se avesse proseguito sulla diritta via, niente visione celeste per lui, e niente capolavoro per noi”.
L’errore e l’azienda
Nelle organizzazioni l’impatto della paura dell’errore è devastante. Una ricerca pubblicata qualche tempo fa da HBR ha dimostrato come la maggior parte delle persone, anche nelle aziende di successo, sprechi tempo e energie in un secondo lavoro per il quale nessuno l’ha assunta: tutelare la propria reputazione, cercando di mostrare il meglio di sé e celando le proprie mancanze.
Jack Welch, storico Ceo della General Electric, intervistato a proposito di come fosse diventato un manager tanto capace, rispose: «Prendendo le giuste decisioni». Alla replica del giornalista su come avesse fatto a imparare a prendere le decisioni giuste disse lapidario: «Prendendone di sbagliate».
3 passi: riconoscere accettare e trasformare l’errore
Rispetto all’errore si devono compiere tre passi in questa necessaria successione: riconoscerlo, accettarlo e trasformarlo. Una cosa è l’errore, un’altra l’orrore e di certo perseverare è diabolico. La prima causa della ripetizione dell’errore è il suo mancato riconoscimento, con se stessi e gli altri. Insomma, un cane che si morde la coda.
Riconoscere un errore passa attraverso la consapevolezza e l’ammissione. Per essere consapevoli ci sono solo due vie: o si ha la fortuna di ricevere, e insieme l’intelligenza di accettare un feedback, oppure si ha piena coscienza di ciò che si fa e di come lo si fa. A questa logica risponde a mio avviso l’introduzione dell’elenco degli errori commessi nel CV: chi ci assume saprebbe che riflettiamo, che abbiamo acquisito del know-how e che non li ripeteremo nella nuova azienda. Non male no?
Ammettere di aver sbagliato significa accettare la propria vulnerabilità, che non ci fa venire meno il diritto di essere amati, e dire “Ho commesso un errore e me ne assumo la responsabilità; avrei preferito non farlo, ma tant’è, ora voglio capire come evitarlo in futuro e quale insegnamento trarne”. Atteggiamento che solleva, suscita empatia e favorisce la condivisione.
Perché ciò avvenga si potrebbe istituire la buona prassi di riunioni aziendali mirate alla condivisione non solo di best ma anche di bad practise, come forma di sostegno e network manageriale interno.
In ultimo, trasformarlo in una risorsa: io capo, quando un collaboratore sbaglia, ricevo un’informazione, una richiesta di aiuto. Non mi farà piacere l’errore, è evidente, ma sono lì per dire “Ok, avrei preferito che lo avessi evitato, ma tant’è: cerchiamo di capire che origine ha, come porvi rimedio e che lezione apprendere”.
Jack Welch, storico Ceo della General Electric, intervistato a proposito di come fosse diventato un manager tanto capace, rispose: «Prendendo le giuste decisioni». Alla replica del giornalista su come avesse fatto a imparare a prendere le decisioni giuste disse lapidario: «Prendendone di sbagliate». Una lezione preziosa.
Come rendere l’errore una risorsa?
Codificare gli errori: definire chiaramente e con trasparenza gli errori accettabili e gli errori non accettabili nelle singole organizzazioni.
Aumentare gli spazi di autonomia: accettare la commissione dell’errore come momento di apprendimento per l’individuo, ma anche di occasione di innovazione per l’organizzazione.
L’indagine degli errori nei processi di selezione: se i candidati ne sono consapevoli non li ripeteranno in futuro, ne metteranno a frutto l’esperienza e dimostreranno lucidità di giudizio.
La sezione degli errori nei curricula: aggiungere nei CV un’area dedicata alla descrizione degli errori, degli insuccessi e di come se ne è usciti.
Introdurre in azienda un budget per l’errore: come esiste un budget per l’innovazione e la ricerca, in ogni organizzazione a prescindere dal core business, dovrebbe esserci un budget per l’errore.
Fare il bilancio dei costi e ricavi degli errori commessi in azienda
Le riunioni di bad practise: indire riunioni da parte dei capi con i collaboratori per condividere errori e per capitalizzare le esperienze “fallimentari” vissute per creare network e supporto manageriale.
Ed ora un video che ci farà sorridere…