Didascalico, senza grandi idee di regia, lasciato a navigare a vista di una storia di per sé molto potente, infarcito di musiche strappacuore, di epica abbastanza a buon mercato e di un senso ultracristiano del destino. A una prima occhiata l’ultimo film di Mel Gibson, Hacksaw Ridge, ha tutte le carte in regola per essere un film mediocre, e in parte lo è.
Ma c’è un ma. Un fattore che bisogna calcolare ed è una cosa che potremmo chiamare il Fattore Mel. Di cosa si tratta? Semplice: per quanto lo spettatore sia preparato alla sua narrativa, per quanto nella sua poltroncina sia consapevole di come funzionano le sue armi retoriche e per quanto possa essere agli antipodi esatti rispetto alle sue visioni ultracristiane, non riesce a non venire trascinato per i piedi nel vortice sempre uguale della sua epica.
Da quando l’attore statunitense — nato nello stato di New York trasferitosi a dodici anni in Australia con la famiglia — ha seguito il consiglio del suo amico Robert Downey Jr. e si è messo a fare il regista, la sua ricetta è sempre la stessa, o quasi: L’uomo senza volto (1993), Braveheart (1996), La passione di Cristo (2004), Apocalypto (2006) e infine quest’ultimo Hacksaw Ridge.
Stessi protagonisti e quasi sempre gli stessi ingredienti: individualismo atavico del “solo contro tutti” e che deve scontare un peccato originale; nemici cattivi e soverchianti in numero e in potenza, apparentemente invincibili; idealismo grezzo, tagliato con l’accetta; momenti epici a pioggia; rapporti intensi e non mediati tra l’individuo e il divino; un potentissimo romanticismo; e, da ultimo, un’anima pacifista cristiana, che è poi quella capacità di subire i peggiori soprusi e torture, il “porgi l’altra guancia” che caratterizza quasi tutti i suoi protagonisti — l’unico escluso è William Wallace di Braveheart, perché quando ai personaggi di Mel Gibson gli tocchi l’amore della sua vita, questi si incazzano e ti vengono a mangiare il cuore.
In Hawksaw Ridge il nucleo centrale è proprio questo pacifismo cristiano, un pacifismo per la prima volta assolutamente inscalfibile, perché inscalfibile lo è stato sul serio il protagonista realmente esistito di questa storia realmente accaduta. Il suo nome è Desmond T. Doss, è un ragazzotto della provincia americana, ultrareligioso, avventista del settimo giorno, un pacifista e si arruola come volontario per partire al fronte durante la seconda guerra mondiale per fare l’infermiere e cercare di salvare più vite possibili. La sua battaglia è semplice: le armi non le vuole nemmeno toccare.
È quel dannato ingrediente che riesce sempre a strapparti una lacrima e che ti chiude la bocca dello stomaco. Quel pugno che non riesci a parare anche se sai in anticipo esattamente dove ti colpirà, come e anche quando.
Il soldato semplice Desmond è esattamente l’individuo tipico di Gibson, quello che combatte la sua battaglia “solo contro tutti”, la stessa che prima di lui hanno combattuto Justin McLeod ne L’uomo senza volto, William Wallace in Braveheart, Gesù Cristo nella Passione e Zampa di Giaguaro in Apocalypto. Anzi, Desmond di battaglie impossibili ne combatte addirittura due: la prima solo contro i suoi commilitoni per salvare la propria integrità morale e partire al fronte senza mai toccare un’arma, la seconda contro i soverchianti nemici giapponesi sull’altipiano di Hacksaw Ridge, a Okinawa, per salvare la vita a decine di suoi commilitoni, lasciati sul campo feriti dopo la ritirata scomposta della loro divisione.
È questo il fattore Mel. È la forza epica che ti fa dimenticare quel onnipresente senso di predestinazione e di infusione divina che altrimenti sarebbe ridicolo, che non ti fa soffermare sui segni dell’accetta che Gibson lascia quando racconta le sue storie. È quel dannato ingrediente che riesce sempre a strapparti una lacrima e che ti chiude la bocca dello stomaco. Quel pugno che non riesci a parare anche se sai in anticipo esattamente dove ti colpirà, come e anche quando.
Nel calcio si dice che i rigori tirati bene siano imparabili. È vero. Se chi calcia sa quello che fa, ti può anche indicare sorridendo l’angolo dove te lo tirerà e tu, pur sapendolo , quel rigore non lo pari. Mel Gibson è un gran tiratore di rigori. Tira sempre nello stesso angolo, e se ne frega che tu lo sappia già. Perché anche se puoi lanciarti con un nanosecondo di anticipo, quello che ti permette di fare un passetto laterale e ti concede i trenta centimetri che ti fanno arrivare a sfiorare il palo in quell’angolo basso, tu, quel rigore, non lo pari.
È il fattore Mel e bisogna dargliene atto. Non ha la finezza, né lo stile o l’eleganza dei numeri 10 di una volta. Lui, quando c’erano le magliette con i numeri fissi, sarebbe stato un 8. Quello che picchia in mezzo al campo e che pur di non lasciarti passare ci rimette un muscolo. Quello che però, quando va a tirare il calcio di rigore, ti guarda negli occhi sorridendo e ti dice: “Te la metto lì”. E tu bestemmi, perché lo sai che ti sta dicendo la verità. Lo sai che non gliela parerai mai.