Tratto dall’Accademia della Crusca
Gattò o gâteau di patate?
Troviamo una prima risposta consultando alcuni dizionari dell’uso quali il GRADIT e il Nuovo De Mauro: il termine gattò è riportato a lemma e classificato come sostantivo maschile invariabile, appartenente al linguaggio tecnico specialistico della gastronomia e chiosato come «tortino cotto al forno a base di patate, uova, formaggio, ecc., tipico della cucina napoletana». È dello stesso avviso anche il Devoto-Oli 2017 assieme al Garzanti, mentre lo ZINGARELLI 2016 riporta solo la forma con la t scempia, gatò, e l’accezione generica, di cui parleremo successivamente.
L’etimologia è presto ricostruita: la parola è antecedente al 1775 e deriva, come era facile supporre, dal francese gâteau. Quest’ultimo termine è a sua volta presente in alcuni vocabolari italiani nella forma di forestierismo integrale, non adattato. Dal GRADIT possiamo trarre anche un’indicazione sull’origine del termine francese: datato 1138 nella var.gastels, deriva dal fràncone (ricostruito, come si vede dall’asterisco) *wastil ‘focaccia’.
Alberto Vàrvaro, nel Vocabolario storico-etimologico del siciliano (Palermo-Strasburgo, EliPhi, 2014, s.v. guastéḍḍa), nota che il termine normanno guastéḍḍa per ‘focaccia’, derivato di gastel, è presente in Sicilia e Calabria meridionale, ma anticamente anche in Campania, mentre guastella compare nel calabrese meridionale. Questo significa che la parola era già entrata in alcuni dialetti del Sud Italia precedentemente al nostro gattò.
Perché gattò e non gató, più vicino alla pronuncia francese? Il raddoppiamento (da una t a due) è comune, ma non esclusivo, in napoletano (infatti la forma raddoppiata gattò coesiste con gatò), mentre l’esito di o aperta tonica in fine di parola si rintraccia anche in altri francesismi presenti nella nostra lingua, come in borderò da bordereau (cfr. Vocabolario Treccani sv), fricandò da fricandeau(cfr. Vocabolario Treccani sv) o rococò da rococo (cfr. Vocabolario Treccanisv).
Si deve però notare che in Sicilia accanto a gattò si trova anche la forma gattó, con la o finale chiusa, “che proviene, direttamente o attraverso l’italiano, dalla forma francese moderna gateau“, come notato ancora da Vàrvaro. In rete si verifica poi l’esistenza della variante con consonante sorda iniziale, cattò. Gattò, gatò, gattó e catò: le varianti non devono lasciare perplessi perché spesso le parole straniere venivano adattate in diversi modi, prima che una forma di adattamento prevalesse sulle altre. In ogni caso, la variante più comunemente registrata dai dizionari sincronici appare gattò.
Gli ambiti d’uso dei due termini, adattato (gattò) e non adattato (gâteau), oggi appaiono sovrapposti solo in parte: mentre gâteau viene usato genericamente per indicare qualsiasi torta dolce o salata, soprattutto se farcita (come esempio il GRADIT dà gâteau al cioccolato), la forma adattata gattò si è specializzata, secondo quanto possiamo ricavare dalla maggior parte dei vocabolari odierni, per indicare una particolare e succulenta specialità gastronomica: è, insomma, un iponimo del termine più generale.
Non è sempre stato così, perché basta controllare il GDLI, il più completo dizionario storico della nostra lingua, per vedere che gatò, con una t sola, viene definito molto genericamente «torta dolce cotta nel forno» (il volume che contiene il lemma è del 1970). Il GDLI cita tra gli esempi Costantino Arlìa, dal Lessico dell’infima e corrotta italianità (1892, prima edizione 1881):
‘Gattò’. La voce francese ‘gateau’ (gatò) suonerebbe per noi ‘focaccia’ o ‘schiacciata’; ma si trasporta a significare tutti quei dolci cotti nella forma di latta o di rame, e composti di varie paste di vario sapore onde pigliano diversi nomi. Dai Francesi noi Italiani abbiamo preso la voce cruda cruda, anzi l’alteriamo spesso dicendo ‘gattò’. È egli necessario? Noi diciamo di no.
Simile anche l’opinione di Alfredo Panzini secondo quanto si legge nel Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni (1950, prima edizione 1905):
‘Gatò’: voce generica ed inutile per indicare ‘dolci’ di una certa dimensione e che prendono nomi speciali secondo le regioni e gli ingredienti di cui sono fatti.
Continuando la nostra storia, vediamo dunque che la particolare specializzazione di significato presente nella cucina napoletana si è determinata in un secondo tempo: un libro di cucina del 1844, dal titolo lunghissimo, ma di grande importanza, La cucina teorico-pratica, ovvero, Il pranzo periodico di otto piatti al giorno: cumulativamente col suo corrispondente riposto, e dettaglio aprossimativo della spesa giornaliera, pratica di scalcare e servire in tavola. Finalmente quattro settimane secondo le staggioni della cucina casareccia in dialetto Napolitano del Cav. e Ippolito Cavalcante, Duca di Buonvicino [sic!] (Napoli, Stamperia e cartiere del Fibreno) elenca, nel sommario, diverse preparazioni di nome gattò, sia salate che dolci: gattò di carote, di selleri, di spinaci, di pomi di terra alla Tedesca, di sparagi ripieno d’erbe cotto al bagno-maria, di cervelli alla Tedesca, di lasagnette alla Buonvicino e per i dolci gattò di mille foglie glassate, di mandorle, di Torino glassato, di mille foglie alla Tedesca,alla Cinese, di pane di spagna alla Reale, con crema di cioccolata gelata epiccoli gattò alla Maddalena.
Qual è il motivo della presenza nel napoletano di questo francesismo, passato da un significato più vasto a indicare una specialità culinaria del luogo (ma diffusa anche in Sicilia, come abbiamo già accennato)?