Giovani blogger, meno cuoricini ai cantanti e più critica musicale, grazie

Siamo al giornalismo musicale che funziona per solidarietà di orientamento sessuale, e non è altro che la versione 4.0 della vecchia critica musicale marchettara

Primo Capitolo

A metà degli anni novanta c’è stata un’epifania. Dentro le nostre televisioni è arrivata una nuova serie tv destinata a cambiare la grammatica del settore, E.R., medici in prima linea. Una roba potentissima, ritmata, con più trame che si intrecciavano nella puntata e nelle puntate, tutta una serie di trovate cinematografiche spostate per la prima volta in una serie tv. E con una scrittura di qualità indubbiamente superiore, che avrebbe poi spinto l’asticella verso l’alto, regalandoci tante altre serie tv degne di nota, al punto che per un po’ si parlerà di questo come della nuova letteratura.

Bene, in quell’epifania c’era un’altra epifania. Uno dei personaggi, Kerry Weaver, ci è arrivata dritta in faccia come un pugno. Un personaggio, almeno nelle prime serie, davvero sgradevole, cattivo, cinico, disumano. Con due caratteristiche piuttosto evidenti: era zoppa e costretta a muoversi con le stampelle, e era lesbica. Boom.
Mai, a mia memoria, una serie tv aveva mostrato un villain, un personaggio cattivo, che presentasse delle caratteristiche che lo facessero rientrare in una qualche categoria così detta debole. Mi spiego. Da quando, viva Dio, non erano più gli afroamericani o gli italiani a interpretare necessariamente i cattivi nei serial polizieschi, per una qualche filosofia politicamente corretta, le case di produzione avevano portato avanti una modalità per cui chiunque potesse in qualche modo essere rappresentate di una categoria vessata, per questioni razziali, religiose, sessuali, di orientamento sessuale, era tenuto a debita distanza dai ruoli già di per sé stigmatizzati. Sei un cattivo? Bene, non posso farti cattivo e nero, se no la gente dirà che sono razzista. Sei cattivo? Non posso farti cattivo e gay, perché se no la gente dirà che sono razzista. E via discorrendo.

Kerry Weaver mandava tutto questo all’aria. Per un principio sanissimo, in natura esistono i cattivi, esistono i portatori di handicap, esistono gay e lesbiche, esistono le persone sgradevoli, e a volte tutte queste caratteristiche abitano nella stessa persona. Un vero shock. Anche perché negli stessi anni, suppergiù, da noi si era fortunatamente usciti dal pantano della macchietta frufrù di Lino Banfi che faceva i gay come se fossero personaggi da circo, ma eravamo scivolati in quello ancora più stucchevole del gay necessariamente bravo, simpatico, sensibile e buono. Si pensi al personaggio gay interpretato da Franco Castellano in Commesse per averne un’idea. Chiunque di noi, immagino, avrà conosciuto persone con tutte queste caratteristiche, ma a me, per dire, è capitato più spesso di conoscerne con anche difetti.

Ecco, diciamo che Kerry Weaver è un pochino meno razzista, come personaggio, del gay di Commesse (personaggio talmente labile da non aver lasciato un nome nella memoria collettiva). Esistono, ovviamente, gay insensibili. Esistono gay che usano la propria omosessualità come una divisa. Esistono gay stronzi. E ci mancherebbe pure altro.

Secondo capitolo

Il mondo del giornalismo musicale è una sorta di microcosmo. Piuttosto agghiacciante. Perché se un tempo c’erano firme rilevanti, non necessariamente illuminate ma rilevanti, gente che con una recensione poteva decidere la fortuna o la sfortuna di un album, stante l’autorevolezza della firma, col tempo quei nomi sono stati sostituiti da altri decisamente meno rilevanti, seppur altrettanto visibili.
A fronte di firme importanti, per essere più chiari, sono arrivati in massa personaggi che hanno fatto del presenzialismo la propria cifra, andando quindi a sostituire con la forma la sostanza.
Niente più critica o informazione, ma veline. Niente più voci autorevoli, ma megafoni per comunicati stampa. Il tutto condito da ospitate varie, vezzi diventati marchi di fabbrica, dai maglioncini pastello ai calzini con Topolino. Su tutto selfie di pass, avvicendamento ai buffet, stazionamenti a bordo piscina.
Una sorta di coro in cui tutto quel che viene cantato è sempre a una sola voce, quella del padrone. Del resto, e non poteva che essere così, tutte quelle firme ambivano a finire dentro il sistema, più o meno comodamente, e nel sistema sono finite, chi con un programma radio, chi con un sito legato alla televisione da gestire, chi con un ruolo in un qualche talent, sempre e comunque in posizione prona, in ginocchio o a quattro zampe.

Di fronte a questo paesaggio non apocalittico, ma circense, la speranza era tutta rivolta alla rete, luogo libero per antonomasia e dove stavano cominciando a emergere nuove firme. Vuoi vedere che arriva finalmente qualche nuova voce solista, ci siamo detti in molti.

Qui però la situazione ha preso pieghe davvero paradossali, trasformando una situazione circense in una farsa. Perché salvo rari, rarissimi casi, e penso a nomi come Mattia Marzi, sicuramente destinato a diventare un punto di riferimento per la critica musicale del futuro, quello che fino a ieri è stato una sorta di marchettificio malfatto e talmente palese da diventare paradossale si è trasformato in chiacchiericcio pieno di cuoricini e dichiarazioni di idolatria nei confronti dei cantanti, quindi ancora un marchettificio solo più puccioso.
E qui torniamo al primo capitolo di questa storia triste. Sì, perché la nuova generazione di giornalisti musicali è animata prevalentemente da un gruppetto di blogger che hanno fatto del proprio orientamento sessuale, aspetto che in genere non frega e non dovrebbe fregare a chi scrive né a chi legge, una cifra che permetta marchette ancora più smaccate, perché apparentemente inattaccabili.
Cioè, se i cinquantenni frequentatori di buffet e di bordi piscina si sono trovati a dover interpretare il ruolo di portavoce ufficiali di quel che di brutto passava il mercato, usando toni enfatici per gli Antonino di turno, personaggi (la parola artisti, converrete, la usiamo per chi merita) che in un mondo normale starebbero in fila all’ufficio di collocamento, i nuovi blogger hanno compiuto la quadratura del cerchio, ammantando di “amore incondizionato” quello che un tempo veniva chiamata critica musicale. Così leggiamo tweet e post su Facebook (di articoli, viva Dio, ne leggiamo pochi dalle loro penne) in cui i nostri dichiarano amore, idolatria, passione sfrenata più per i personaggi che per la loro musica.
Esce un singolo di Mengoni, eccoli lì tutti a dichiararsi innamorati del cantante di Ronciglione, giocando appunto su uno sbandierato orientamento sessuale per far passare per grande chi e cosa grande non è. Idem con Tiziano Ferro, e con tanti altri nomi che, per motivi che sfuggono a chi non fa del proprio orientamento sessuale una bussola con la quale orientarsi nel mondo musicale, dovrebbe rientrare in una certa estetica gay. Nel senso, non è ipotizzabile seriamente che una Ivana Spagna, e faccio volutamente un nome tra i tanti del passato ormai passati nell’archeologia, venga considerata una pietra miliare della nostra musica pop. Non lo è stata musicalmente, non credo lo sia stata neanche a livello di immaginario. Non è ipotizzabili che lo stesso accada oggi a gente come Benji e Fede, o Emma Marrone.
Ma il discorso trascende i singoli nomi. Non è ipotizzabile che un giornalista musicale si dichiari innamorato di un cantante (o di una cantante che viene assurta al ruolo di icona).

Non è ipotizzabile che si tirino in ballo gli ormoni parlando di cantanti, non lo si può fare, non lo si deve fare.

Perez Hilton, che si suppone sia il punto di riferimento di questa genia di blogger, è Perez Hilton, e per altro ha fatto più danni della pellagra nel secolo scorso.

Sarebbe come se un critico eterosessuale (per altro, ha senso davvero ostentare il proprio orientamento sessuale? Mah), recensisse le cantanti solo in base al loro charme, alla loro bellezza fisica, parlasse di ormoni invece che di suoni, giudicasse gli album per la figaggine di chi lo canta. Immaginatevelo, le accuse di sessismo pioverebbero a secchiate.

Non bastasse questo paradosso, che ha reso ancora meno credibile una categoria cui i frequentatori di buffet e di bordi piscina avevano già inferto colpi mortali, sta in qualche modo provando a far passare per buona una estetica davvero deprecabile. Il riconoscersi nei testi di Tiziano Ferro, santo Iddio, non può essere usato come mezzuccio per incensare canzoni banali e ripetitive, né dovrebbe esserlo per giudicarlo. Chi se ne frega se anche tu hai passato quel che ha passato lui, cazzo, non sei un adolescente che cerca di trovare il proprio posto nel mondo, sei un critico musicale, un giornalista musicale.

Non è della vita del critico che si parla, ma delle canzoni, quando si fa critica musicale.

Ora, immagino, qualcuno dirà che questo ragionamento è sessista, razzista e omofobo. Ma vi sfido a provare questa tesi analizzando riga per riga quel che ho scritto. Smettetela di mettere i cuoricini su Tweet in cui ci dite quanto questo o quel cantante vi smuova gli ormoni e iniziate a occuparvi di musica, giovani blogger.

Nel mentre mi metto comodo coi popcorn, perché l’attesa sarà lunga e sfiancante.

Capitolo finale

Dice, ok, hai fatto una carrellata di come, negli ultimi anni, la critica e il giornalismo musicale sia diventato in buona parte un concentrato di marchettari, chi per un verso chi per l’altro, tutti lì a battere le mani, ma tu? Tu che ruolo hai? È mai possibile che critichi quasi tutto quello che esce in Italia? Nel senso, è vero, i frequentatori di buffet e di bordi piscina parlano sempre bene di tutti, come i giovani blogger gay, ma tu fai esattamente il contrario. Sembra quasi una presa di posizione.

Bene.

Chiariamo questo punto.

Vi sarà prima o poi capitato di andare a mangiare nel ristorante sbagliato, dove la qualità del cibo è tutta scadente, i piatti cattivi, il servizio pessimo. Quando ne siete usciti che avete fatto? Suppongo ne avrete parlato male con amici e parenti. Avrete sconsigliato di andare a mangiare lì. A nessuno di voi sarà venuto in mente di dire, che so?, la pasta era scotta e il ragù fatto con la carne in scatola di pessima qualità però in fondo non sono morto intossicato, perché se vai al ristorante pretendi almeno cibo di una certa qualità. Pretendi professionalità. Nessuno, suppongo, vi avrà risposto: ma queste non sono critiche costruttive. Oppure, ma è mai possibile che non ti piace niente. Perché se ti mettono merda nel piatto tu dici che c’è merda nel piatto. Senza essere costruttivo se non nello spingere gli altri a stare alla larga da quel ristorante e nello spingere il ristoratore a smetterla di mettere merda nel piatto. Nessuno avrà anche detto, eh, ma il ristoratore mi svuove gli ormoni, lo amo, cucina esattamente come il/la mio/a ex, condendo il tutto con cuoricini e micetti.

Tutto questo per dire che se scrivo male di buona parte della musica prodotta in Italia è perché buona parte della musica prodotta in Italia è fatta male. E se non sono costruttivo, termine che mi genera imbarazzo anche solo a pensarlo, è perché io sono un critico musicale, non un missionario o un consulente musicale.