La storia è di qualche anno fa e aveva fatto abbastanza rumore. Ikea voleva aprire un suo grande magazzino in Ucraina, a Odessa. Aveva già acquistato il terreno quando ha deciso di fare marcia indietro. Ufficialmente, perché le condizioni di mercato erano diventate sfavorevoli. Ufficiosamente, almeno per la stampa locale, perché non voleva pagare tangenti. È una storia che ha fatto scuola. Non solo perché l’Ucraina, per bocca del suo ministro dell’economia Aivaras Abromavicius, ha dichiarato di augurarsi che Ikea cambi idea perché «si tratterebbe di un atto simbolico importante», per dimostrare che Kiev e dintorni non sono più terre di mazzette. Soprattutto, perché per le grandi imprese è molto, troppo rischioso, avventurarsi in territori che lo sono.
Il motivo? La giungla di normative anti-corruzione che sono spuntate come funghi negli ultimi anni. Soprattutto, quelle extraterritoriali come l’Fcpa americana. Una legge – l’acronimo sta per Foreign Corrupt Practices Act – che si pone l’obiettivo di scoprire e punire ogni atto di corruzione sia compiuto, in ogni parte del mondo, da imprese americane o che hanno un determinato grado di connessione con gli Stati Uniti d’America. Molto prosaicamente, l’Fcpa estende la sua giurisdizione anche su imprese che hanno accordi di partnership con realtà americane e agisce anche retroattivamente: «Se compri una nuova società puoi essere ritenuto responsabile dei precedenti atti di corruzione di quella stessa società – spiega Marianna Vintiadis di Kroll, una delle più importanti società di corporate investigation -. Noi abbiamo fatto saltare molte fusioni e acquisizioni a causa di questa normativa».
Una recente ricerca effettuata proprio da Kroll su un vasto panel di imprese circoscrive al meglio il problema: si tratta di realtà che operano in contesti globali, propense a investire ovunque nel mondo. Fa specie constatare, quindi, che il 38% di queste realtà affermi che la propria realtà ha deciso di non investire in Sudamerica proprio a causa del forte tasso di corruzione dei contesti locali, con tanti saluti a sviluppo e posti di lavoro.
«Se compri una nuova società puoi essere ritenuto responsabile dei precedenti atti di corruzione di quella stessa società. Noi abbiamo fatto saltare molte fusioni e acquisizioni a causa di questa normativa».
La questione fondamentale riguarda il controllo. Stando al report, quasi il 60% dei casi di corruzione riguarda addetti che non fanno parte del management aziendale. In strutture aziendali globali e ramificate, quindi, un dipendente che, nei migliori dei casi, fa un regalo a un pubblico ufficiale, o che allunga del denaro per saltare qualche trafila burocratica, rischia di ritrovarsi bandita dagli Stati Uniti o di veder bloccata un’acquisizione o una fusione.
Come difendersi dalla corruzione interna, quindi? Per le aziende una strada importante è quella formazione. I corsi anti-corruzione obbligatori sotto forma di video-lezioni sono molto efficaci. Presentano situazioni tipo e spiegano cosa fare e non fare, creando una forte consapevolezza tra i dipendenti sulle conseguenze delle loro azioni: non è un caso, che sette imprese su dieci, tra quelle intervistate, hanno usato training obbligatori anti corruzione per tutti i loro dipendenti negli ultimi 12 mesi. «Oltre a essere buona prassi, per le imprese può essere una difesa importante in caso di guai, perché in caso accada qualcosa puoi portare in tua difesa il tuo impegno nel portare avanti politiche anti-corruzione», spiega ancora Marianna Vintiadis.
E in Italia? Anche qui da noi la normativa è molto stringente e rigorosa, ma da noi «si preferisce spesso accertare le responsabilità, anziché risolvere i problemi», chiosa Vintiadis. Forse è anche per questo che, nonostante tutte le leggi, il problema non accenna a diminuire. Con tutto quel che ne consegue per le imprese italiane che vogliono investire all’estero e, soprattutto, per le imprese italiane che vogliono investire in Italia. L’Ucraina, in fondo, non è così lontana.