“Il popolo di Trump? Per i media era una tribù di selvaggi”

Il giornalista indipendente Chris Arnade ha passato un anno nel Midwest, nelle comunità bianche e impoverite affascinate dalla retorica violenta di Trump. Una realtà parallela, che non condivide nulla col resto d’America: né la visione del mondo, né l’informazione

Dopo lo shock elettorale (se si può definire così) i giornali americani, ma non solo quelli americani, hanno cominciato l’operazione di autoflagellamento: “dove abbiamo sbagliato? Come abbiamo potuto non accorgerci di quello che stava succedendo?” Gli errori commessi, come è risultato evidente dal risultato elettorale, sono tanti. E non solo statistici (quelli semmai, sono errori dei sondaggisti, altrettanto gravi ma diversi – per i direttori di aggregatori online che non lo capiscono). È stata sbagliata la copertura, la scelta delle notizie, l’illusione di saper comprendere quello che succedeva sul territorio solo leggendo le notizie locali, il terrorismo da fine-del-mondo-certa se non avesse vinto Hillary (perfino Obama si è risolto a dire “comunque vada domani sorgerà il sole”, per calmare le acque), i modi e, tra le altre cose, il trattamento del “popolo di Trump”, visto e interpretato con piglio antropologico, come fossero una tribà sconosciuta o, forse più probabile, un waste of deplorables che poi, al momento del voto, è venuto a restituire il saldo degli insulti ricevuti.

Ma di sicuro non sarà LinkPop a fare la ramanzina al New York Times (ci pensano già tanti altri più bravi). Ci si limiterà, piuttosto, a riportare alcuni passaggi di un’intervista interessante, apparsa sulla Columbia Journalism Review. Quella a Chris Arnade.

Come recita il cappello iniziale, Arnade (che è un giornalista, ma anche fotografo ed ex trader di Wall Street. Vanta anche una laurea in fisica) ha passato gran parte del 2016 nel Midwest, domendo in motel, girando per le città ex-industriali, pranzando e cenando con gli abitanti della cosiddetta America profonda. E tutte queste persone non facevano altro che lamentarsi di come il loro Paese fosse finito in basso. “Non è solo da quest’anno: è da tempo che va avanti: è il sentimento di una comunità frustrata, che si vede lasciata da parte; la perdita di centri di attrazione; la fine dei mulini, la fine delle fabbriche, la fine dei posti di lavoro”. Tutto questo, spiega, non è mai stato raccontato davvero. Accennato, forse, ma mai raccontato.

“Un esempio per tutti è Prestonsburg, nel Floyd County, Kentucky. Sono 3.500 persone, tutti bianchi, ex paesino industriale del carbone, che dal punto di vista economico è in crisi da 15 anni, cioè da quando il carbone è crollato. Il centro cittadino, che negli anni ’70 e ’80 era dominato da imprese locali, ora è composto solo da cliniche per tossicodipendenti. Il centro reale ora è il Walmart, o il McDonald’s, o le chiese. Il senso di comunità è ancora forte, ma per questo tutta la comunità si sente umiliata. Tutto il paese soffre: inseme al declino economico sono aumentati i casi di dipendenza da droghe o da alcol e la rottura di famiglie. Sono cose che hanno male”. È in questo ambiente che arriva il messaggio di Trump: restituire orgoglio a queste persone, “in parte facendo leva sull’identità bianca”. Perché da “Prestonsburg l’America non sembra più grande”.

Di sicuro, non ha aiutato il fatto di bollare tutte queste persone come razzisti. “La domanda è: esiste un segmento importante di elettori di Trump che è razzista in modo profondo, furioso e viscerale? Certo. Ma è questa la forza principale che ha guidato il trumpismo? No”. È senza dubbio un invito, un appeal per queste comunità bianche e impoverite, ma non la ragione del voto. In ogni caso, nonostante le promesse fatte, “è indubbio che queste persone resteranno deluse dal Trump presidente”.

Giornali come il New York Times o il Wall Street Journal in quei villaggi non hanno cittadinanza. “Non solo non saranno mai presi in considerazione. Non sono nemmeno considerati validi. Sono stati screditati da tempo (dalla Fox, dalla radio, dai politici stessi) e non saprei nemmeno dire perché”. Certo, “non aiuta il fatto che questi giornali stampino editoriali e opinioni piuttosto aggressive nei confronti di queste comunità, mentre hanno dato supporto al libero scambio, al matrimonio gay e ad altri temi che qui, come ci si può immaginare, non hanno molta presa”.

Questo dà luogo a un “information divide”. Anzi, a una vera e propria separazione dal resto del mondo. Se possibile, quella di Trumplandia è una realtà parallela, un mondo a sé. Indagato poco e troppo tardi: “Alla convention repubblicana a Cleveland c’erano, solo per i media, 2000 persone e non ne ho vista nemmeno una. Perché io sono stato nei sobborghi, sono stato in un quartiere nero e povero (a soli due chilometri dalla convention, si potevano vedere gli elicotteri) e un altro popolato da bianchi della working class. Anche lì c’erano elettori – non quelli che erano andati a manifestare, quelli che giravano per la città, ammazzando il tempo. I giornali si sono concentrati sulla macchina della politica e non sui votanti”. E così, verrebbe da dire, hanno mancato il bersaglio. Forse, vien da pensare, speravano che vincesse la Clinton. E che questa indagine non si sarebbe mai rivelata necessaria.

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