Il suicidio della discografia, da Rovazzi a Maria de Filippi

C'erano una volta i manager che si occupavano di Artisti e Repertorio. Figure che via via sono diventate sempre più ottuse e subalterne. Ora il pop lo fa la Tv o i brani-provocazione one shot. E di Artisti e Repertorio non c'è nemmeno l'ombra

La notizia che la HBO non produrrà la seconda stagione di Vinyl è stata una vera mazzata per tutti gli appassionati di musica, specie di musica rock, non è una novità. Il fatto è che, oltre a essere scritta e girata da Dio, Vinyl ha rappresentato, almeno per le poche puntate della prima stagione, una finestra su un mondo che tutti, ma proprio tutti tutti gli appassionati di musica hanno vagheggiato, su cui hanno letto libri, hanno sentiti fumosi dj parlare di notte alla radio, quando c’erano fumosi dj che raccontavano storie alla radio, hanno spulciato articoli. Insomma, Vinyl è stato, per il poco che è durato, la discesa in terra della figura divina del discografico che vive la propria vita nel pieno spirito del rock’n’roll, che scova talenti e li fa diventare rockstar, che brucia velocemente, lasciando però segni indelebili nella cultura dei nostri tempi.

Quante volte vi sarà capitato di sognare quel che deve essere successo in determinate stanze quando, ah, i bei tempi, i miti del rock, ma anche del pop, si trovavano a incrociare le proprie strade. Pensare alla prima volta che si è ascoltato il provino di un brano poi diventato un classico. Ideare una determinata campagna pubblicitaria, studiare un determinato look, pensare a connessioni e contaminazioni prima neanche immaginabili. Insomma, è la magia del music business, e Vinyl, che di quel mondo raccontava una specifica e ristretta finestra temporale, ce l’ha fatto vivere per qualche ora.

Tutto vivido. Tutto bellissimo, nel suo essere torbido e amfetaminico. Tutto vero. Tutto finito.

Sì, finito per sempre. Almeno da noi. Perché da noi è arrivato Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi.

Fermi tutti, questo non è un articolo che stigmatizza il successo di Fabio Rovazzi e del suo Andiamo a comandare. Qui si parla di Vinyl, di discografia e di morte della discografia. Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi è semplicemente un evento, un evento che in qualche modo segna il passaggio da un’epoca a un’altra epoca. Per dire, la Scoperta dell’America, 12 ottobre 1492, segna per gli storici, il passaggio dalla Storia Medievale alla Storia Moderna, Storia Moderna che poi finirà con la Rivoluzione Francese, nel 1789, dando vita alla Storia Contemporanea.

Ecco, il successo di Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi sancisce la fine della discografia per come ce la ricordavamo, o meglio, per come amavamo credere che ancora fosse, e la nascita di una nuova forma di discografia, ancora non decodificata con un nome specifico (difficile immaginarlo, confesso).

Succede questo. Per circa mezzo secolo, anche di più, la discografia si è mossa grazie a figure simili, almeno ipoteticamente, a quella di Richie Finestra, il protagonista di Vinyl. Chiaro, figure spesso e volentieri molto meno drogate di Richie Finestra, ma altrettanto arse dalla sacra passione per la musica, dalla necessità quasi fisica di scoprire un talento, una hit, un sound.
Pensate a tante case discografiche, più o meno grandi, con tanti Richie Finestra, e avrete quella che è stata l’evoluzione della musica leggera dalla metà degli anni cinquanta fino a pochi anni fa. Si lavorava su due piani contemporaneamente, da una parte si cercavano le hit, canzoni capaci di scalare le classifiche e fare cassa, dall’altro si provava a sperimentare, inerpicandosi per sentieri ancora non battuti da altri alla ricerca di nuovi suoni, di nuove soluzioni, si cercavano nuovi artisti che aprissero strade che poi sarebbero state battuti da altri. Questo lavoro poteva anche prevedere anni, ma il mercato era sufficientemente vivo da permettere anche dei passi falsi. Nei fatti da una parte c”erano i bestseller, dall’altra si puntava alla sperimentazione. Chi poi aveva già conquistato una fetta di mercato, rimaneva in casa, magari erodendo in parte il proprio pubblico di riferimento, ma contribuendo a fare repertorio, quello che in editoria viene chiamato il catalogo (anche in discografia, ma mi piaceva fare quello colto).

A tenere le fila di tutto ciò erano delle figure, i Richie Finestra di cui sopra, che vengono tutt’ora chiamati A&R. Una sigla mitologica, questa, che sta, traduciamolo, per Aristi & Repertorio. Una cosa che, per chi non è addentro all’ambiente, è un mix di talent scout, dirigente discografico, uomo d’affari e al tempo stesso, direttore artistico. Chi, come me, lavora in questo settore, ne conosce diversi. Ecco, diciamo molti simpatici ragazzi, una o poco più ragazze, ma nessun Richie Finestra, nel bene e nel male.

Gli A&R hanno per compito proprio quelle attività lì, scovare nuovi talenti, gestire il repertorio, e provare anche a trovare nuove strade musicali, aprire percorsi che possano essere fatti anche da altri. Tutto molto bello, sulla carta. Spettacolare, quasi.

Ma c’è un problema. Un problema serio. Un problema serissimo.

Gli A&R, negli ultimi anni, si sono ammalati tutti. Hanno preso una malattia tipo quella che l’anno scorso aveva colpito gli ulivi, impedendo quasi totalmente la produzione di olio in Italia. Di colpo in bianco te la becchi e zac, sei finito. Peggio di quella degli ulivi. Una roba irreparabile. Tipo in quei film catastrofisti, che arriva un virus che ammazza l’umanità, fino alla fine stai lì a fare il tifo per i protagonisti, che sembrano salvarsi, ma nell’ultimo fotogramma capisci che no, moriranno anche loro.

Ecco, gli A&R hanno preso questo virus. Hanno iniziato a guardare a quel che succedeva nel mondo con sempre meno lucidità. Ma non per gli eccessi raccontati da Vinyl, Richie Finestra lì che si strafà in ogni fotogramma, proprio per assenza di acume, per incapacità di decifrare la contemporaneità.
Quando è arrivata la rete loro stavano lì che guardavano ad altro. Quando ormai l’MP3 stava diventando obsoleto hanno iniziato a pensare ai download, ma nel mentre c’era lo streaming, e loro l’hanno capito a Deezer, Spotify e tutto il resto già sul mercato. Ma del resto non è di questi aspetti che si occupano gli A&R, questo è più compito di chi le aziende dove gli A&R lavorano le dirigono, loro si devono occupare di artisti e di musica. Bene, anche su questo fronte la loro lucidità è pari a quella dimostrata da Arisa nel corso delle prime puntate live di X Factor. Non riuscendo a azzeccare un artista da tempo immemore (l’ultimo grande nome, Tiziano Ferro, se lo sono cuccati due grandi vecchi come Mara Maionchi e Alberto Salerno, certo non gente di primissimo pelo), faticando anche molto a gestire i nomi già presenti in casa, si pensi alle immani cagate tirate fuori da artisti come Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Elisa e affini negli ultimi tempi, ecco che gli A&R hanno iniziato a sentirsi la terra venire meno sotto i piedi.

Nel mentre è successo che le televisioni, per intuito di gente come Simon Cowell e, da noi, Maria De Filippi, abbiano intuito della grande potenzialità di fare dei loro programmi, i cosiddetti talent, una sorta di indagine di mercato a spese dei telespettatori, con tanto di fanbase bella e pronta prima ancora di avere un vero prodotto da proporre loro (e solo in base a un personaggio testato dai programmi medesimi), così ecco che gli A&R, cuor di leone, hanno iniziato a mettersi a quattro zampe al cospetto di chi quei talent gestisce. Perché dover faticare a cercare talenti quando c’è chi li cerca per te?
Peccato che Simon Cowell e Maria De Filippi facciano televisione, quindi non sia esattamente la musica il loro core business, per dirla con le parole di chi si occupa di queste faccende. Risultato, la qualità delle uscite discografiche è andata via via abbassandosi, arrivando ben sotto il livello del mare. Anche perché, sempre loro, gli A&R, mentre dicevano troppi sì a artisti affermati che proponevano robaccia, nel mentre cominciavano a proporre a loro volta la stessa robaccia a altri artisti, più o meno affermati, dando vita a un circolo vizioso e poco virtuoso.
Abbassa che ti abbassa, però, succede che il mercato entra in agonia, boccheggia, si avvia verso una dolce fine. Succede quando punti tutto su una Michielin, o quando pensi che Emma sia una artista. Succede, ancora di più, quando emmizzi Elisa, quando la Mannoia usa gli stessi autori di Giusy Ferreri, succede quando Eros guarda ai Club Dogo più che a Cassano.

E proprio quando tutti stanno ormai cominciando a mettere le loro cose negli scatoloni, pronti a sbaraccare e cercarsi un nuovo lavoro, ecco il miracolo. Miracolo che, però, miracolo in realtà non è. Il virus potrebbe avere una cura miracolosa, e la cura si chiama Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi.

Immaginatevi la scena. Gente disperata, pronta a prenotare un appuntamento dal parrucchiere per riportare i capelli a una tinta decente, costretta a immaginarsi non più apocallitici ma finalmente integrati, che di colpo si trova una canzone pagata zero euro in vetta alle classifiche. Un brano apparentemente partito dal basso, lo abbiamo già raccontato, ma sicuramente non partito dall’intuizione di loro A&R, ma dal genio di Fedez e J Ax (artisti dello scouting e del marketing, non certo musicali). Un brano che è vissuto e ha proliferato praticamente unicamente in rete, prima di viralizzare e diventare, come tutti i virus, pervasivo e invasivo. Di colpo loro, gli A&R, hanno guardato a questa cosa, che era già successa, prima come a una salvezza momentanea, e poi come a una via di scampo futura.

Così ecco la genialata. Contrordine compagni, da oggi solo progetti alla Rovazzi, one shot poco costosi, ma molto remunerativi. Se funzionano bene, se non funzionano le perdite sono contenute.

Tutto è bene quel che finisce bene.

Cioè.

Quasi.

Anzi, no.

Tutto bene un cazzo.

Perché succede che il nome A&R perda prima quella A, legata all’artista. Rovazzi non è un artista. Nessun artista lavorerebbe a progetti one shot. Un tempo c’erano persone, nelle case discografiche, che si occupavano solo di progetti one shot, non a caso. Un artista deve avere un progetto di ampio respiro. Per poter poi planare a quella R, al Repertorio.

Faccio un esempio, prendiamo una qualsiasi major. Come campa? Buona parte proprio col repertorio. Esempio? La Nike vuole fare uno spot. Gli serve una canzone dei Beatles, faccio un nome a caso, chiama l’editore, che è parte di una major, gli chiede la canzon e in cambio dei diritti sgancia qualche milione di euro. Oppure succede per un film. Per la sigla di una serie tv. Repertorio, appunto.

Se non ci sono più artisti non ci sarà più repertorio. Pensate che la Nike del 2030 andrà dalla casa discografica di Rovazzi a sganciargli qualche milione per i diritti di Andiamo a comandare per uno spot? Dai, facciamo i seri.

Mandiamoli in pensione i direttori artistici, cantava Battiato nel 1980, ma è andata a finire molto peggio di così.

Niente artisti.

Niente repertorio.

La discografia è morta.

Ha abdicato prima all’intuito di qualcun altro, che si trattasse del ragazzino di Napster, a Steve Jobs o a chi ha inventato Spotify, nel mentre ha calato le braghe con Simone Cowell e soci, e poi ha definitivamente allargato le terga di fronte a chi, in fondo, non fa musica.

Niente A&R, quindi.

Niente A.

Niente R.

Resta solo la &.

Andate in pace.

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