Made in Italy, tante chiacchiere ma l’export sta a zero

Nonostante quello che dicono i politici e i titoli dei giornali l’export italiano (come quello europeo in genere) non va a gonfie vele. Le esportazioni non salvano più nessuno. Le strade per tornare a crescere sono altre, ed è ora che ce ne rendiamo conto

Molte volte abbiamo sentito espressioni o titoli come “Nell’export Italia batte Germania”; “Export, è record per l’Italia”, in bocca ai politici, o anche come titoli di giornali. Non si tratta solo la ricerca del titolo o dello slogan facile, piuttosto di un sentimento generale, una forma di auto-consolazione nazionale, una ricerca di un’ancora di salvezza dal declino, di una qualche notizia positiva da rivendicare davanti alla crisi.

Poco importa che di volta in volta si trattasse di una variazione di un singolo mese o trimestre, o solo di alcuni settori. Le esportazioni da qualche anno sono servite a questo, qualche numero da usare come rassicurazione psicologica. In realtà a fronte del calo dei consumi, del crollo degli investimenti, la stabilità dell’export o il suo lieve aumento, unito alla diminuzione delle importazioni, ha frenato la recessione, ma oggi che è tornato “il segno più” la spinta delle esportazioni è apparsa per quella che è, poca cosa purtroppo, e non basta per esempio a riportare la crescita al livello di quella del resto d’Europa.

Non poteva essere altrimenti, perchè in realtà negli ultimi lustri, dal 2000 in poi, purtroppo, anche se nascosto rispetto ad altri maggiori, abbiamo vissuto un declino anche in questo campo, quello del commercio con l’estero. Uno dei motivi per cui ce ne siamo accorti meno è che è stato un declino condiviso con la gran parte dei Paesi occidentali. Se ci occupiamo nello specifico solo di questi, nel 2015 con circa 455 miliardi di dollari, eravamo al settimo posto tra gli Stati dell’OCSE come esportazioni, poco sopra il Regno Unito e dietro la Francia. Ai primi posti gli Stati Uniti, con 1503 miliardi, e la Germania con 1312, a distanza il Giappone con 625. Manca naturalmente il colosso Cina.

Guardando alle quote di mercato, se confrontiamo l’ultimo trimestre 2000 e quello del 2015 si nota come il mondo sia cambiato. Il Giappone è tra i Paesi che ha perso di più in termini percentuali all’interno di quelli avanzati, dal 10,42% al 6,54%. Giù anche la Francia, il Regno Unito che è scivolata dietro l’Italia. Sono stati Germania (dal 11,94% al 14,02%), Paesi Bassi e soprattutto la Corea del Sud, che scalato moltissimi posti, ad avanzare.

L’Italia ha perso quote, pur non moltissime: è passata dal 5,17% al 4,86%.


Si parla qui, ricordiamolo, solo dei Paesi avanzati che fanno parte dell’OCSE.

Ma vi è un club ancora più d’elite nell’economia mondiale. Quel G7 che, creato nei lontani anni ‘70, non rappresenta più la realtà dell’economia attuale, ma l’”old money”, direbbero nei Paesi anglosassoni, quei vecchi ricchi, un’aristocrazia che, seppur in declino, rimane potente.

Ebbene, anche prendendo in considerazione solo il mercato di questo ristretto gruppo di Paesi l’Italia dal 2008 non è riuscita ad aumentare la propria quota di export, che era passata dall’ 8,25% al 9,74% tra 2000 e 2008, superando Regno Unito e Canada, ma che è ri-calata al 8,69% nel 2015

Si noti l’avanzamento della Germania, che nel 2008, quando negli USA già soffrivano la crisi, era balzata al primo posto, per poi perdere alcuni decimi nel 2015, rimanendo però molto oltre i numeri dell’inizio del secolo.

Gli Stati Uniti si sono ripresi molto bene dallo scivolamento del 2008 e nel 2015 hanno una quota di mercato superiore di più due punti rispetto a quella del 2000.

Si vede anche nella classifica degli incrementi delle esportazioni nell’ultimo trimestre del 2015 rispetto a quelli analoghi del 2000 e del 2008. Gli USA sono primi tra 2008 e 2015, la crisi del Giappone è evidente, ma anche l’Italia non riesce ad avanzare ed è deprimente il confronto con il grande balzo avutosi dal 2000.

Possiamo solo consolarci, un po’ miseramente, con il fatto che la Francia ha fatto peggio di noi. Il club del G7 del resto nel 2000 costituiva il 64% dell’export dell’OCSE, nel 2015 solo il 55%, e solo il 41% del G20, in cui c’è anche la Cina e i grandi Paesi emergenti.

Stiamo quindi parlando di un risultato deludente all’interno di un gruppo di Paesi complessivamente in declino.

Nella UE siamo verso il fondo della classifica. Rispetto al 2010 siamo risaliti di poco più il 10%, sia verso i Paesi europei che extra-europei. Non sono stati solo i Paesi dell’Est, come era facile immaginare, quelli che sono riusciti ad espandere maggiormente il commercio, ma anche quelli che sono stati colpiti duramente dalla crisi, la Spagna con un +43,4%, la Grecia, con un 33,4%. Non noi.

Non è più tempo di trattati internazionale, il TTIP è fallito, Trump ritirerà gli USA da quello trans-pacifico, in ogni caso è il commercio globale che va incontro a un rallentamento.
Non possiamo più puntare sul ruolo salvifico dell’export. Non può farlo neanche la Germania, ormai, che da tempo cresce grazie all’aumento dei consumi, e addirittura, per i canoni tedeschi, della spesa pubblica.

La tentazione di fare lo stesso e di usare questo driver in cui da sempre eccelliamo in Italia è grande. Purtroppo però con un rapporto debito/PIL quasi doppio di quello tedesco non possiamo permettercelo, a prescindere da quello che i politici predicano.

Il sentiero è strettissimo, di fatto con il commercio al palo e la spesa pubblica non espandibile ci rimane solo quello di un aumento dei consumi e degli investimenti, che però potremmo ottenere solo con lo sblocco, finalmente, della produttività, da 15 anni stagnante.

È la strada più difficile, più esigente, più impopolare, ma ad oggi l’unica possibile, al di là della propaganda.

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