Anche gli inglesi lo sanno: la loro lingua è impraticabile per tanti motivi, ma soprattutto perché non esiste una corrispondenza serena tra la scrittura e la pronuncia. È un vecchio, antico problema, che attanaglia generazioni di studenti (soprattutto anglosassoni) e li obbliga a imparare compitazioni assurde per scrivere suoni che, al contrario, conoscono bene. Un problema che, come però sanno in pochi, nel passato si è cercato di risolvere: senza riuscirci.
Alcune anime pie, nel tentativo di semplificare la lingua e renderla più accessibile e, nell’operazione, magari risparmiare anche un po’ di inchiostro e carta, hanno inventato nuove modalità di scrittura della lingua inglese: alcune più rivoluzionarie, altre meno. Tra queste, udite udite, figura anche il presidente degli Usa Theodore Roosevelt (non Franklin Delano, eh).
Prima di lui, però, un nugolo di attivisti della lingua si erano già sguinzagliati nel tentativo di riformare & semplificare. Il più noto è Noah Webster, scrittore e lessicografo a cavallo tra 1700 e 1800 che chiedeva una rigida innovazione fonetica, appoggiata perfino da Benjamin Franklin, ma che non ha avuto successo. Le uniche modifiche che è riuscito a portare avanti, cioè togliere le lettere “inutili” di colour, waggon e publick (ora in Usa sono color, wagon e public) sono una conquista minore di un programma molto più ambizioso.
Roosevelt si era convinto che, comunque, quella fosse la strada giusta: non si poteva lasciare che parlato e scritto fossero sempre così distanti. E allora agì per decreto (uno dei suoi 1000, a fronte dei 250 di Obama), ma la sua “guerra della lingua” non ebbe comunque successo, anzi. I giornali cominciarono a prendersi gioco di lui. Questo, ad esempio, è quello che scriveva il Louisville Courier-Journal nel 1906: “Nuthing escapes Mr. Rucevelt. No subject is tu hi fr him to takl, nor tu lo for him tu notis. He makes tretis without the consent of the Senit. He inforces such laws as meet his approval, and fales to se those that do not soot him. He now assales the English langgwidg, constitutes himself as a sort of Frensh academy, and will reform the spelling in a way tu soot himself”
Anche il Baltimore Sun ebbe da ridire: forse il presidente si sarebbe fatto chiamare “Rusevelt”? Dall’altra parte dell’oceano fu anche peggio: il Pall Mall Gazette lo definì “un anarchico”, in un’epoca in cui “anarchico” significava, tradotto in termini attuali, “militante di al Qaeda”. Il Saturday Review scrisse che l’America era diventata “la casa degli uomini liberi e il paradiso dei mezzi ignoranti”, e infine, il London Evening Standard, scrisse (e qui si preferisce lasciare l’originale): “How dare this Roosevelt fellow … dictate to us how to spell a language which was ours while America was still a savage and undiscovered country!”.
Come poteva Roosevelt vincere queste resistenze? Non poteva, e del resto nemmeno la Corte Suprema volle accogliere i suoi decreti. Preferì far finta di nulla e di ignorarla. E quando la battaglia venne portata fino al Congresso, furono i voti dei parlamentari a chiudere la questione: 145 voti contrari, e solo 25 voti a favore. E così si chiude il velleitario tentativo di dare un senso allo spelling inglese.