“Trump dimostra che del clima non importa a nessuno”

Come si fa a salvaguardare gli accordi sulle emissioni senza poi impoverire i Paesi sviluppati? Il dilemma non ha mai trovato soluzioni né proposte valide, e il presidente Trump non fa altro che mettere il dito sulla piaga

Ora che Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti, l’opinione pubblica mondiale si interroga con preoccupazione su come potrà cambiare l’approccio del gigante americano sul tema del clima e del riscaldamento globale. Durante la campagna elettorale, infatti, il neo presidente ha più volte espresso scetticismo sull’esistenza stessa dei cambiamenti climatici e sugli accordi internazionali per affrontarli.

Gli Stati Uniti sono la prima democrazia e la prima economia del pianeta, e non penso che il presidente Trump abbia intenzione di mettere in discussione i dati delle agenzie governative del suo Paese, che forniscono le informazioni più accurate e aggiornate sui mutamenti del clima. I dati e le immagini diffuse lasciano pochi margini di dubbio rispetto agli effetti diretti e indiretti dell’aumento della temperatura del pianeta, già ben misurabili nell’Artico e in Groenlandia, piuttosto che nel Plateu del Tibet dal quale hanno origine i fiumi che “dissetano” più di 2 miliardi di persone in Asia.

Ciò che dobbiamo aspettarci, invece, è che il presidente Trump denunci gli effetti sull’economia americana degli accordi internazionali per la riduzione dell’uso dei combustibili fossili. Trump, infatti, è diventato presidente anche perché ha intercettato la protesta e la domanda dei disoccupati prodotti apparentemente anche dalle recenti politiche ambientali ed energetiche del suo Paese. Ma la posizione di Trump è la stessa già espressa dal Senato Usa nel 2015, ed è molto simile alle motivazioni che nel 1999 – durante la presidenza di Bill Clinton – portarono al voto unanime contro la ratifica del Protocollo di Kyoto. Tutti sanno, poi, che se Obama avesse sottoposto l’accordo sul clima di Parigi al Senato, gli Usa non lo avrebbero ratificato.

Insomma Trump è più il bambino della favola di Andersen – “I vestiti nuovi dell’imperatore” (il re è nudo) – piuttosto che il genio del male che fa saltare l’impegno globale sul clima, perché si concentra sugli effetti economici dell’accordo, lasciati ai margini come variabili ininfluenti o comunque di “competenza di altri”.

Come si fa a evitare che nel “pacchetto” globale della riduzione dei combustibili fossili, l’aumento dei consumi energetici nelle economie emergenti e in via di sviluppo non abbia come contrappeso l’impoverimento delle economie più sviluppate?

Bisogna ricordare che l’attuazione dell’accordo di Parigi richiederebbe la riduzione nei prossimi 25 anni del consumo globale di combustibili fossili dall’86% al 50%. Tuttavia, nello stesso periodo, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, è previsto un aumento della domanda globale di energia del 35%, soprattutto in India, Cina, Sud Est Asiatico, Sud America e Medio Oriente, ovvero in aree che non possono rinunciare all’energia per sostenere la propria crescita (per esempio in India 300 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità).

Il puzzle, insomma, è molto complicato.

Trump pone un problema che è anche dell’Europa: come si fa a evitare che nel “pacchetto” globale della riduzione dei combustibili fossili, l’aumento dei consumi energetici nelle economie emergenti e in via di sviluppo non abbia come contrappeso l’impoverimento delle economie più sviluppate? Basta ricordare il confronto in corso negli Stati Uniti, ma anche in Germania e in Europa, sul futuro dell’industria mineraria, energetica e di base, oppure analizzare le strategie e i programmi di investimento delle grandi compagnie petrolifere americane ed europee che non sono influenzate dall’accordo di Parigi, per capire che il “velo” dei buoni propositi sul clima copre problematiche economiche e geopolitiche non risolte.

Il Green Climate Fund, meccanismo tradizionale di assistenza allo sviluppo, non ha né la struttura né tantomeno la dotazione finanziaria per dare una risposta adeguata alle modalità e dimensioni degli investimenti necessari all’attuazione dell’accordo. Quali dovrebbero essere le regole e i meccanismi finanziari globali in grado di garantire nello stesso tempo l’accesso agli investimenti necessari da parte dei Paesi e delle imprese, e la concorrenza leale nel mercato mondiale dell’energia? A questa domanda bisogna rispondere, non perché Trump è presidente ma perché altrimenti non sarà possibile dare attuazione all’accordo di Parigi.

Evitiamo di fare lo stesso errore di quando il presidente Bush nel 2001 e il presidente Obama nel 2009 furono accusati del fallimento del Protocollo di Kyoto. Ma il Protocollo di Kyoto è fallito perché non vi fu spazio per il dialogo tra le diverse “visioni”, a cominciare da quelle espresse dal Senato americano fin dal 1999.

* già ministro dell’Ambiente

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