La guerra in Siria ha per ora un sicuro sconfitto: l’Occidente. Se ci sono pesanti dubbi su quanto abbiano da festeggiare i vincitori del momento – Assad, Russia e Iran -, viste le incognite che gravano sul futuro del Paese, di sicuro noi non siamo invitati al loro tavolo. Il prossimo 27 dicembre a Mosca si terrà un summit sulla Siria tra Mosca, Teheran e Ankara. Quando si parlerà di come fermare le violenze, e soprattutto di come spartire le sfere di influenza, l’Occidente non ci sarà. Né gli Stati Uniti né nessuno Stato europeo è stato invitato.
Potrebbe essere di consolazione il fatto che, in fondo, la Siria è sempre stata negli ultimi decenni una pedina di Mosca, ed è quindi accettabile che sia lei coi suoi alleati regionali a discutere del problema. Peccato che la guerra in Medio Oriente stia scaricando le sue principali conseguenze in termini di migrazioni e terrorismo proprio sull’Europa.
E potrebbe forse anche consolare la presenza al tavolo dei negoziati di Ankara, membro Nato e secondo esercito dell’Alleanza, se non fosse un segnale dal significato diametralmente opposto: la Russia sta infatti esercitando sempre più attrazione su una Turchia che da anni, dal fallimento della svolta neo-ottomana di Erdogan, si allontana e si sente abbandonata dall’Occidente. Una delle voci che circolano al momento è che gli ufficiali Nato turchi di provata fedeltà atlantica vengano addirittura rimpiazzati da fedeli di Erdogan dalle tendenze isolazioniste se non filo-russe.
Se perdere, o meglio “non conquistare”, la Siria può far fare spallucce a molti governi occidentali, l’allontanamento della Turchia dall’Alleanza, il suo flirt con Mosca e la sua svolta autoritaria interna sono invece questioni estremamente pericolose per i nostri interessi strategici
Se perdere, o meglio “non conquistare”, la Siria può far fare spallucce a molti governi occidentali, l’allontanamento della Turchia dall’Alleanza, il suo flirt con Mosca e la sua svolta autoritaria interna sono invece questioni estremamente pericolose per i nostri interessi strategici. Il Cremlino lo sa e infatti approfitta del dossier siriano per tessere questa tela: ad Ankara viene offerto un posto al tavolo delle trattative, probabilmente il riconoscimento di un ruolo nell’area e, in cambio della sua moral suasion sui ribelli, gli si consente anche di intervenire direttamente in Siria coi propri carri armati per impedire l’unificazione del Rojava curdo, incubo strategico della Turchia. Curdi che, nonostante questa mossa di Putin e pur essendo formalmente anche alleati degli Usa contro l’Isis, restano interlocutori tanto per Mosca quanto per Damasco nella partita che si gioca a nord di Aleppo contro i ribelli. Finora la diplomazia russa ha insomma giocato con astuzia e coerenza mentre quella americana (e quella tuttora inesistente europea) arrancava.
Ma veniamo ai pericoli che aspettano gli attuali vincitori in Siria. Mentre viene ultimato, pare tra episodi di violenza indiscriminata, lo sgombero dei ribelli superstiti e dei civili da Aleppo, l’Isis consolida i risultati della propria controffensiva su Palmira. Aver concentrato gli sforzi, gli uomini e i mezzi sulla battaglia di Aleppo ha evidentemente lasciato sguarnito il fianco orientale dei territori controllati dal regime. Quella che era stata la principale vittoria di immagine e di propaganda per Putin, quando l’orchestra di San Pietroburgo aveva suonato nel meraviglioso teatro romano di Palmira, ora rischia di trasformarsi in un boomerang di immagine. Una conferma oltretutto di quanto molti analisti sostengono da sempre: l’intervento russo in Siria ha avuto, e ha, ben poco a che fare con l’Isis e coi terroristi. È solo una mossa per salvare il regime alleato di Assad, colpendo quindi soprattutto i ribelli moderati che avrebbero potuto costituire un’alternativa.
La Russia, molto probabilmente, reagirà e Palmira tornerà nuovamente sotto il controllo dei lealisti. Ma nel frattempo il Califfato, che molti davano oramai per morente, ha dato un segno di vitalità che potrebbe avere ripercussioni pericolose in Medio Oriente e in Occidente. Inoltre pare sia entrato in possesso di armi pesanti abbandonate dalle truppe siriane, e in particolare dei temibili manpads, missili terra-aria a spalla (quelli che gli Usa per anni non hanno voluto dare ai ribelli siriani per timore che cadessero in mani terroriste).
La popolazione siriana, in maggioranza sunnita, continuerà a odiare il regime di Assad, e ancora di più le milizie sciite che stanno combattendo la guerra per lui. La ribellione quasi certamente non finirà con la sua sconfitta militare, ma continuerà con una logorante guerriglia
Il problema maggiore per i vincitori non sarà però probabilmente l’Isis, anzi. Il problema è piuttosto la natura settaria – sunniti contro sciiti – che ha assunto da tempo la guerra civile e che negli ultimi giorni della battaglia di Aleppo pare stia trovando una macabra conferma. La popolazione siriana, in maggioranza sunnita, continuerà ad avere paura e ad odiare il regime di Assad, e ancora di più le milizie sciite iraniane, irachene, afghane e libanesi che stanno combattendo la guerra per lui. La ribellione quasi certamente non finirà con la sua sconfitta militare, ma continuerà con una logorante guerriglia in un Paese che il regime di Damasco non ha abbastanza uomini e soldi per controllare capillarmente. Mosca lo sa e cerca di ridurre il più possibile il carattere di scontro intra-religioso del conflitto, specie considerate le fondamentali relazioni diplomatiche ed economiche che la Russia ha col mondo sunnita. Per ora il Cremlino non ha avuto fortuna, anche a causa delle agende divergenti con l’Iran. Teheran è infatti l’altro alleato fondamentale di Damasco ma, a differenza di Mosca, la sua partita si inserisce esattamente nella faida con l’Arabia Saudita (sunnita) per l’egemonia sul mondo islamico. Queste divergenze tra alleati, queste debolezze del “cavallo vincente” Assad, rischiano di trasformare il dopo-vittoria sul campo in un pantano. Anche senza un Occidente che, meno che mai con Trump, giochi sporco per avverare questa previsione.