Vi hanno negato il contratto d’affitto perché il proprietario dell’immobile che avete scelto ha ottenuto un report negativo su di voi basato, tra l’altro, sulle tracce che avete lasciato in rete; le forze dell’ordine vi hanno assegnato un punteggio di rischio di delinquere che tiene conto del quartiere nel quale siete cresciuti; la possibilità di accedere a un prestito dipende anche dal contenuto delle conversazioni che avete tenuto in chat. No, non è la trama di una puntata di Black Mirror, la distopica serie cult britannica. Tutto questo sta già accadendo ora grazie alla rapida evoluzione dell’analisi predittiva, la disciplina che combina informatica, psicologia e statistica allo scopo di prevedere gli eventi che si verificheranno nel prossimo futuro.
Abbiamo voluto parlare di quest’argomento con David Stillwell, vicedirettore dello Psychometric Centre dell’Università di Cambridge, lecturer in Big Data analytics e Quantitative social science alla Cambridge Judge Business School, e inserito dal Pacific Standard Magazine tra i trenta più importanti pensatori sotto i trent’anni. Per promuovere l’uscita del videogame Watch Dogs 2 il suo istituto di ricerca, in collaborazione con Sid Lee e Ubisoft, ha realizzato la piattaforma online Predictive World che, grazie alla geolocalizzazione e alla possibilità di collegarsi al proprio profilo Facebook, dipinge un ritratto psicologico, familiare e professionale un po’ approssimativo ma certamente di grande impatto.
«Nel videogame il sistema ctOS 2.0 incrimina l’hacker Marcus Holloway per un reato che deve ancora commettere» esordisce Stil lwell. «Abbiamo creato questa piattaforma per far comprendere agli utenti cosa un sistema predittivo è in grado di prevedere sul loro futuro. Per realizzarla abbiamo setacciato miliardi di dati per cercare una correlazione, ad esempio, tra il luogo in cui vivono e il reddito presunto. Poi abbiamo aggiunto altre variabili, per citarne una l’altezza, perché le statistiche dimostrano che le persone più alte guadagnano di più. Ovviamente il sistema non è poi così intelligente, ma anche questa è una lezione per noi, che dimostra che i sistemi predittivi non sono mai perfetti». Minority Report non è solo fantascienza: di recente il think-tank ProPublica ha diffuso una lunga analisi nella quale si critica l’algoritmo utilizzato per determinare la propensione a commettere un crimine in futuro, denunciando il fatto che è più severo con gli individui di colore.
Il paradosso della modernità è aver lottato decenni per definire prima e difendere poi la privacy e finire per svenderla senza particolari rimpianti
Alla base dell’analisi predittiva c’è dunque il data mining (letteralmente: estrazione di dati), il processo che all’interno di grandi basi di dati ricerca relazioni e pattern prima sconosciute, e sulla base di esse tenta di predire comportamenti futuri. Le applicazioni concrete fanno ormai parte della vita quotidiana, basti pensare al credit scoring, ovvero l’elaborazione di un punteggio creditizio finalizzato alla concessione di prodotti finanziari, oppure alla prevenzione delle frodi. «L’analisi predittiva è ormai di uso comune in molte aree: per fare un esempio i supermercati utilizzano i dati metereologici per prevedere il consumo di prodotti stagionali» conferma Stillwell. «Ciò può avvenire perché grandi quantità di dati ormai sono disponibili un po’ ovunque, sia grazie agli archivi pubblici come il censimento, sia con database privati».
Ma c’è di più: non è solo una questione di dati e in questo senso i social network giocano un ruolo fondamentale. «Allo Psychometric Centre studiamo e mettiamo a punto metodi psicometrici all’avanguardia. Utilizziamo i big data per misurare i tratti della personalità senza fare ricorso ad alcun quesito: piuttosto che chiedere “ti piace frequentare le feste?”, preferiamo fare ricorso ai dati che riguardano i social che ci permettono di capire con che frequenza gli utenti vanno effettivamente alle feste rispetto alla media».
È scritto nero su bianco che Facebook raccoglie informazioni sulle condivisioni proprie o di altri utenti, sulle modalità di interazione con gli altri utenti, fino ai dettagli sui dispositivi utilizzati, compresa la geolocalizzazione e l’indirizzo IP. Tutto ciò semplicemente per denaro
Dal punto di vista digitale il paradosso della modernità è aver lottato decenni per definire prima e difendere poi la privacy, e finire per svenderla senza particolari rimpianti. Siamo infatti proprio noi utenti a fornire ai social network in maniera passiva e totalmente gratuita una mole pressoché infinita di preziosissimi dati. È scritto nero su bianco che Facebook raccoglie informazioni sia sulle condivisioni proprie (ad esempio foto) o di altri utenti (ad esempio stati in cui siamo taggati), le modalità di interazione con gli altri utenti, fino ai dettagli sui dispositivi utilizzati, compresa la geolocalizzazione e l’indirizzo IP. Tutto ciò semplicemente per denaro. Come si legge al punto 9 delle condizioni d’uso «il nostro obiettivo è fornire pubblicità e altri contenuti commerciali di valore a utenti e inserzionisti» e, nella sezione Normativa sui dati, «usiamo tutte le informazioni in nostro possesso per mostrarti inserzioni pertinenti […] potremmo fornire a un inserzionista informazioni sulle prestazioni delle sue inserzioni o sul numero di persone che le hanno visualizzate […] per aiutarli a capire pubblico o clienti».
There ain’t no such thing as a free lunch – non esistono pasti gratis: se da un lato si è certi di utilizzare un servizio in maniera totalmente gratuita, dall’altra le piattaforme che utilizziamo raccolgono dati (spesso sotto forma di cookies) che rivendono a terzi allo scopo di perfezionare il targeting. «Il problema è che le persone oggi percepiscono che i dati vengono usati contro di loro» incalza Stillwell. «Cerchi qualcosa su un sito e subito ti appaiono pubblicità per quel prodotto sui siti che visiti successivamente. È un problema innanzitutto perché è un meccanismo poco trasparente, e inoltre non è qualcosa che riesci a controllare». Quale può essere allora la soluzione a questa emorragia di dati? Sostiene Stillweel: «La mia proposta è che le aziende che producono software progettato per supportare annunci pubblicitari forniscano agli utenti un’opzione a pagamento nella quale i loro dati non vengano utilizzati per finalità commerciali. Non ritengo giusto non poter scegliere che fine fanno i miei dati, perciò ritengo che in futuro gli utenti accetteranno di buon grado pagare qualche dollaro al mese pur di tenere al sicuro le proprie informazioni».