Nel calcio esiste una legge non scritta che dice, anzi sentenzia in maniera praticamente inappellabile, che se un club non ha una lunga e soprattutto gloriosa storia alle spalle, non ha diritto ad avere un futuro tra i grandi. Con tutto ciò che ne consegue. Ad esempio: se sei una squadra di provincia e a un certo punto ti ricavi un posto nella massima serie del tuo Paese dopo anni di sottobosco, puoi farlo solo se con pochi soldi. Solo così puoi guadagnarti l’appellativo di “miracolo” o “favola”, condito da chili di melassa e retorica su giornali e siti web. Se quel posto nella massima serie te lo guadagni invece con una proprietà che investe milioni, allora non vale. Che schifo i soldi e chi li stampa, il loro fruscio rovina tutta la retorica: e poi si sa, nelle favole, le principesse sono povere.
E allora che schifo il Sassuolo, fondato negli anni Venti ma mai stato in Serie A fino a qualche stagione fa e ora addirittura arrivato in Europa League, grazie agli investimenti operati da una multinazionale leader nel settore di ceramiche e affini come Mapei. La cui colpa è stata quella di prendere una squadra di provincia e osare elevarla al nobile rango della A, dove “squadrette” come Carpi e Frosinone vengono considerate di basso profilo economico e quindi poco appetibili alla ricca (?) massima serie italiana: chiedere a Claudio Lotito per conferma. Una colpa, quella di Mapei, aggravata dal fatto che avrebbe occupato uno stadio non suo, perché in una città che non la rappresenta (Reggio Emilia), nonostante la gestione dell’impianto sia stata regolarmente acquisita all’asta, dopo che lo stadio cittadino era finito nelle mani del tribunale locale, causa fallimento della Reggiana. E poco importa se i neroverdi abbiano investito in questo stadio e fatto giocare in Europa giovani rampanti e promettenti come Mazzitelli, Sensi, Ricci: gente cresciuta in altri vivai, ma come spesso accade nel nostro calcio ceduti dalle grandi per fare un po’ di cassa, che nel nostro calcio non guasta mai.
Il Sassuolo però è già fuori dall’Europa e messo male in campionato: festeggiate dunque. E non guardate a quel che succede in Germania, allora. Già, perché peggio ancora se succede che una squadra viene fondata dal nulla e scala rapidamente le classifiche e arriva dall’ultima alla prima serie nel giro di pochi anni. Negli ultimi tempi, in Bundlesliga, c’è una polemica molto forte contro la Red Bull e la sua aggressiva strategia di marketing applicata al calcio. Nella massima serie tedesca gioca la squadra di calcio di Lipsia, targata appunto Red Bull, tanto da portarne il nome così come accade in altre realtà come in Austria con il Salisburgo. La protesta, che ha assunto la forma del movimento Nein Zu RB (No alla Red Bull) nasce dal fatto che sette anni fa questo club nemmeno esisteva. La strategia della casa austriaca applicata allo sport è semplice: subentra ad un team già esistente e ne cancella ogni traccia o lo crea ex novo, investendo forti somme per vincere subito, che si tratti del calcio o della Formula Uno, dove l’azienda di Dietrich Mateschitz ha applicato entrambe le modalità: da una parte fondando la scuderia Red Bull, dall’altra acquistando la vecchia Minardi e cambiandone il nome con la traduzione italiana del proprio marchio “Toro Rosso”. Nel calcio, nel 2005 è arrivato l’acquisto prima dei New York Metrostars, anche qui rinominati con il nome del brand, quindi l’acquisizione del Salisburgo. Con una strategia molto più aggressiva: cambio di nome, ma anche di colori e nuovo stadio.
Negli ultimi tempi, in Bundlesliga, c’è una polemica molto forte contro la Red Bull e la sua aggressiva strategia di marketing applicata al calcio. Nella massima serie tedesca gioca la squadra di calcio di Lipsia, targata appunto Red Bull, tanto da portarne il nome così come accade in altre realtà come in Austria con il Salisburgo. La protesta, che ha assunto la forma del movimento Nein Zu RB (No alla Red Bull) nasce dal fatto che sette anni fa questo club nemmeno esisteva. Oggi l’RB Lipsia è primo in classifica, davanti a squadroni tradizionali come Borussia Dortmund e Bayern Monaco.
Mateschitz in Austria è stato chiaro fin da subito: dimenticate la vecchia squadra e i trofei vinti. E a quei tifosi che contestavano l’assenza dello storico colore viola dalle maglie, il numero uno dell’azienda ha risposto facendo trovare loro sui seggiolini dello stadio gli occhialini per il cinema in 3D, con le lenti guarda un po’ di colore viola. In Germania, alcuni tifosi come quelli del Borussia Dortmund sono arrivati a disertare le trasferte a Lipsia, pur di ostacolare il progetto Red Bull in versione tedesca. Mateschitz avrebbe voluto in realtà comprare anni fa la Dinamo Dresda, poi il Sachsen: in entrambi i casi, i tifosi non hanno gradito. Quindi acquista il Markranstadt, club di quinta serie. Poi lo sposta a Lipsia, ne cambia colori e nome, quindi arriva il nuovo stadio e lo sbarco in Bundesliga. Oggi l’RB Lipsia è primo in classifica, davanti a squadroni tradizionali come Borussia Dortmund e Bayern Monaco.
Certo, fa sorridere che siano proprio i tifosi del Borussia Dortmund a guidare il movimento del no alle lattine nel calcio, visto che qualche anno fa il BVB mancava poco che fallisse e se non fosse stato per l’intervento della Signal Iduna, multinazionale europea del ramo assicurativo e capace di scucire i soldi necessari ad acqusitare il Westfalenstadion, casa dei gialloneri. Così come in fondo stupisce che gli stessi tifosi del Borussia non abbiano notato che nel board del club siede Bjørn Gulden, nientemeno che ceo di Puma, altra multinazionale (fatturato 2015: 3,4 miliardi di euro) che fa capo alla holding francese Kering e unica nel settore dell’abbigliamento sportivo a investire in una società che appunto era sull’orlo del fallimento. Così come può stupire che non si sia fatto nessun parallelo, nella mitica sudtribune di Dortmund, tra la Signal Iduna e la Allianz, visto che entrambe le multinazionali operano nello stesso campo. Allianz (che nel 2014 ha registrato un risultato utile di 10 miliardi) nel calcio è diventata in poco tempo una istituzione grazie all’investimento operato nel Bayern Monaco, squadra tedesca che gioca le proprie gare casalinghe nell’Allianz Arena, divenuto in 10 anni un modello in tutto il mondo per organizzazione e ricavi. Per dire: il bilancio 2015 della società controllante dello stadio, la Allianz Arena München Stadion GmbH, si è chiuso in attivo per 8,6 milioni di euro. La società ha come socio unico la FC Bayern München AG, società che fa capo al Bayern Monaco e al cui tavolo siedono tutte multinazionali. In Germania vige un sistema a due: le società vengono amministrate da due consigli, ovvero uno di controllo e uno di sorveglianza. Nel secondo, che è presieduto dalla controllante al 75% della FC Bayern München AG (la FC Bayern München eV) ci sono i rappresentanti di Adidas, Audi, Allianz Deutschland, Deutsche Telekom e Unicredit.
Certo, fa sorridere che siano proprio i tifosi del Borussia Dortmund a guidare il movimento del no alle lattine nel calcio, visto che qualche anno fa il BVB mancava poco che fallisse e se non fosse stato per l’intervento della Signal Iduna, multinazionale europea del ramo assicurativo e capace di scucire i soldi necessari ad acqusitare il Westfalenstadion, casa dei gialloneri.
La presenza della casa automobilistica è quella che spicca su tutte, come stiamo per vedere. Certo il Bayern non si chiama “Bayern Audi”. E la strategia del marchio non è aggressiva come quella di Red Bull. Ma il caso dimostra che la Germania, nonostante il sistema di gestione dualistico debba assicurare equilibrio con la presenza di sindacati e rappresentati del governo locale nei board delle società, ha di fatto consegnato il pallone nelle mani delle multinazionali, a prescindere da Red Bull e in maniera meno appariscente – ma non per questo meno presente – delle lattine. Ecco, torniamo al caso Audi allora. Che è controllata da Volkswagen, che nel Wolfsburg campione di Germania nel 2009 dopo una lunga militanza nelle serie minori ha piazzato i propri manager, essendone la controllante. E se Volkswagen ha sede a Wolfsburg, Audi ha casa a Ingolstadt. La cui squadra locale è salita in Bundesliga lo scorso anno: come l’RB Lispsia, anche il club fino a qualche anno non esisteva ed è nato dalla fusione di due squadre locali sull’orlo del fallimento. L’Ingolstadt non si è legato subito ad Audi: il nuovo stadio in cui gioca è stato costruito con fondi di aziende del posto e dopo comprato dalla casa automobilistica, che nel frattempo ha aumentato la propria quota di partecipazione del club del 19,9% tramite la controllata Quattro Gmbh, contribuendo quindi a dotarlo di un budget per la prima stagione del club nella massima serie di 8 milioni. Non un cifrone, ma comunque il doppi di quanto disposto fino a quel punto. Risultato? Undicesimo posto finale e campagna discriminatoria da parte di alcuni avversari (vedi Holtby del più blasonato Amburgo) contro il club, reo di essere troppo falloso e senza gioco. Ma forse non era quello il punto.
E allora, qual è il punto? Che il pallone di oggi, piaccia o meno, va a braccetto con le multinazionali perché i club sono essi stessi sulla strada per diventarlo. Lo è il Bayern, che ha uffici commerciali a Monaco come a New York e ha chiuso l’ultimo anno fiscale con un fatturato netto di 590 milioni. Lo sono Real Madrid e Barcellona, con 620 milioni di fatturato netto nel 2015/16. Perché ormai riescono a fare soldi ovunque, comunque. I Blancos griffano di tutto, compreso un enorme ed elegante cafè a Dubai. E le multinazionali non sono più solo aziende che comprano le squadre, ma veri e propri partner commerciali che investono nel pallone per poi spartirsi i ricavi. Un esempio che vale per tutti è quello dei grandi brand dell’abbigliamento sportivo, disposte a scucire somme ragguardevoli per vestire i club: tipo i 90 milioni annui versati da Adidas al Manchester United, che poi devono rientrare sotto forma di visibilità e merchandising globale. E lo stesso vale per gli sponsor di maglia. Nella sola Premier League, il campionato con più visibilità al mondo, nell’ultima stagione le aziende hanno speso 264 milioni di euro per avere il proprio logo sulle casacche della massima serie britannica. E la visibilità fa investite tutti, anche le aziende dei nuovi mercati: dal prossimo anno il Barcellona incasserà 55 milioni all’anno dalla Rakuten multinazionale giapponese dell’e-commerce.
L’Allianz PArque, casa del Palmeiras (Thiago Fatichi/Divulgação/Globoesporte)
Ma accade anche che siano le aziende europee ad investire nei nuovi mercati. Allianz, dopo il successo di Monaco, ha investito in tutto il mondo: Austria, Brasile (all’Allianz Parque giocano i neo campioni del Palmeiras), Australia e Francia, dove sponsorizza la casa del Nizza di Balotelli, altro club “senza storia” ma primo in Ligue 1. Qui da anni domina il Psg, squadra nata negli anni Settanta ma che a parte qualche vittoria qua e là, ha dovuto attendere l’arrivo dei ricchi arabi per imporsi in patria e provare a vincere anche in Europa, dove ormai esultano di fatto sempre le stesse squadre. Eccolo allora, il punto: se grazie a una multinazionale il Lipsia è primo in Bundes e può provare a rompere il lungo trionfo del Bayern meglio del Borussia, o se il Sassuolo può andare in Europa con merito al posto di squadre più blasonate ma peggio organizzate (e ora in mano a multinazionali cinesi…), perché no?