Una delle incognite più discusse a proposito della riforma costituzionale è quale impatto avranno le modifiche lì contenute se al referendum del 4 dicembre dovessero vincere i Sì. Come abbiamo rilevato in precedenza, alcune questioni saranno decise solo successivamente alla eventuale entrata in vigore dei nuovi articoli. In particolare: la legge che disciplinerà l’elezione dei senatori in modo che venga rispettata la volontà dei cittadini, l’indicazione dei costi standard a cui le Regioni dovranno adeguarsi, le leggi costituzionali che disciplineranno i referendum consultivi/di indirizzo e la riforma dei regolamenti parlamentari per garantire che le leggi di iniziativa popolare siano discusse in tempi certi e per dare uno “statuto” alle opposizioni che ne sancisca i diritti (il dettato costituzionale sul punto è straordinariamente vago). Altre questioni, di importanza capitale, sono invece state già risolte dal legislatore della riforma, in particolare adeguando i meccanismi di elezione delle istituzioni di garanzia – Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale – alla nuova composizione del Parlamento, con soli cento senatori.
Il Presidente della Repubblica, garante della Repubblica stessa, col sistema attuale viene eletto a scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea (composta da deputati e senatori, più tre delegati per ogni Regione), ma dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. Con il sistema parlamentare che emergerebbe dalla riforma un simile meccanismo sarebbe pericoloso: chi avesse infatti la maggioranza alla Camera (316 deputati su 630), considerato il numero esiguo dei senatori (100 invece di 315), potrebbe eleggere il Presidente della Repubblica escludendo le minoranze a partire dal terzo scrutinio. Di qui la necessità di una modifica. Spariscono innanzitutto i delegati regionali, venendo assolta dal nuovo Senato la funzione di rappresentare gli enti locali, e vengono alzate le soglie: per i primi scrutini (sempre segreti) rimane la maggioranza dei due terzi, dal quarto si passa ai tre quinti dell’assemblea, e dal settimo ai tre quinti dei votanti.
Alcuni costituzionalisti schierati per il No – come l’ex presidente Gustavo Zagrebelsky – hanno stigmatizzato questa soluzione, perché coi tre quinti dei votanti, se per ipotesi le opposizioni si astenessero dal partecipare al voto anche solo per votare contro, una maggioranza anche esigua potrebbe “accaparrarsi” la presidenza della Repubblica. Ma secondo diversi esperti, giuristi e politologi, si tratta più di un caso teorico che altro. Diametralmente opposta la critica di altri costituzionalisti schierati per il No – come l’ex presidente Ugo De Siervo -, secondo cui manca una norma di chiusura per questo sistema di elezione: se opposizione e maggioranza non trovassero un accordo dopo il settimo scrutinio si rischierebbe una paralisi potenzialmente eterna. La tesi del fronte del Sì in proposito è che non si possono fare norme perfette, che garantiscano cioè sia rappresentanza di tutte le forze sia certezza dell’elezione del Presidente, ma che tocca alla classe politica poi farle funzionare trovando accordi.
Per quanto riguarda poi la Corte Costituzionale, col sistema attuale è composta di quindici giudici nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative. Di nuovo si è posto quindi il problema – per quanto riguarda i cinque eletti dal Parlamento in seduta comune, dove il quorum necessario è la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini, la maggioranza dei tre quinti nei successivi – di evitare che una maggioranza alla Camera potesse approfittare dell’esiguità del numero dei senatori per eleggere giudici costituzionali troppo vicini a una determinata fazione politica. In base alla riforma dunque, dei cinque giudici eletti dal Parlamento tre saranno eletti dalla Camera e due dal Senato. Il rischio che i tre giudici eletti dai deputati siano troppo vicini a un partito dovrebbe essere scongiurato dalla soglia dei tre quinti (378 su 630, ben al di là della maggioranza di 340 che il tanto contestato Italicum darebbe al vincitore del ballottaggio). Più scivoloso il discorso per quanto riguarda i due giudici eletti dai senatori, soprattutto per l’incertezza sulla futura composizione del Senato (la legge con cui i Consigli regionali eleggeranno i senatori rispettando le indicazioni dei cittadini sarà fatta solo dopo l’eventuale entrata in vigore delle modifiche costituzionali). In ogni caso è auspicabile che anche nel nuovo sistema si mantenga la prassi vigente, per cui la maggioranza parlamentare di turno elegge al massimo tre giudici su cinque tra quelli della propria “area”, mentre all’opposizione ne spettano due.
Sempre a proposito della Corte Costituzionale merita infine un accenno il vaglio preventivo di costituzionalità per le leggi elettorali che la riforma introduce. In base al nuovo articolo 73 della Costituzione, le leggi elettorali di Camera e Senato possono – se lo richiedono un quarto dei deputati o un terzo dei senatori – essere sottoposte al giudizio preventivo della Consulta, che ha 30 giorni per dirimere la questione. Questa disposizione ha suscitato qualche lamentela da parte dei giudici costituzionali, che si vedono “tirati per la giacchetta” su un campo che è spesso più politico che giuridico. Tuttavia, come spiegato dai sostenitori di questa norma, una simile esigenza è stata creata proprio dall’intervento dei giudici costituzionali sulla precedente legge elettorale (il “Porcellum”) il 4 dicembre 2013. Secondo alcune parti politiche si trattò di una “invasione di campo” dei giudici, secondo altre era loro diritto e dovere esprimersi: in qualsiasi caso il legislatore della riforma ha deciso che per il futuro non si correrà più il rischio di avere un Parlamento delegittimato, almeno agli occhi dei cittadini digiuni di sottigliezze giuridiche, dalla bocciatura della legge che ne ha regolato l’elezione.
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