Tratto dall’Accademia della Crusca
Il lessema post-verità (che da qui in avanti chiameremo meno tecnicamente “parola” per comodità) è esploso nella nostra lingua a seguito della Brexit e più recentemente delle elezioni americane vinte da Trump: al 22 novembre 2016, ricercando con Google sulle pagine italiane del web, si contavano oltre 30.000 risultati (tenendo conto, oltre che di post-verità, anche delle varianti post verità e postverità). Si tratta di un adattamento dall’inglese post-truth (sul cui significato torneremo a breve) e non stupisce che le occorrenze della parola siano aumentate proprio in concomitanza di due eventi storici di rilievo entrambi di ambiente anglofono (dove la frequenza d’uso della parola nel 2016 è salita del 2000% rispetto al 2015). La larga diffusione di post-truth nella stampa inglese e americana, e nel web, ha fatto sì che la parola abbia conosciuto una grandissima fortuna nella nostra lingua, in questo caso (come ormai raramente accade per gli anglismi) anche ricorrendo al calco post-verità. La forma non adattata è comunque presente sul web con frequenza sostanzialmente paritaria al calco post-verità: effettuando una ricerca con Google limitatamente alle pagine italiane, si rintracciano infatti circa 34.000 risultati di post-truth(includendo i risultati con la variante grafica senza trattino post truth). La frequenza d’uso di post-verità è del resto destinata a crescere, almeno nel futuro immediato, dal momento che, proprio in questi giorni, la controparte inglese post-truth è diventata essa stessa notizia, con la decisione degli Oxford Dictionaries di eleggerla parola dell’anno per il 2016. E la definizione della parola inglese, un aggettivo, è rimbalzata dai giornali al web e viceversa: ‘relativo a, o che denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali’.
La scelta degli Oxford Dictionaries, che con questa iniziativa intendono premiare una parola che sia particolarmente significativa nell’anno e che abbia buone speranze di consolidarsi nella lingua, appare per il 2016 particolarmente azzeccata. La post-verità, infatti, sembra davvero permeare a fondo la società contemporanea, se una falsa notizia sui soldi spesi dalla Gran Bretagna per l’Europa (dato verificabile) può spostare in parte il voto sulla sua adesione alla UE; o se mettere in dubbio il luogo di nascita di un cittadino americano (dato verificabile) può influenzare l’elezione del presidente degli Stati Uniti; o se il fatto che l’Accademia della Crusca non compili un dizionario (dato verificabile) non serve a far capire che non può metterci dentro petaloso; o se i profili social sono spesso autonarrazione svincolata e svincolabile da dati obiettivi, perché quel che conta non è chi siamo, ma l’emotività e la simpatia con cui si è accolti. L’impatto del concetto veicolato da questa parola sulla società del nostro tempo è quindi decisamente di larga scala e coinvolge sia i micro che i macrocosmi.
Si discute molto sul fatto che in fondo non si tratti di un fenomeno nuovo: da sempre nelle campagne politiche lo screditamento dell’avversario con false notizie è uno strumento largamente impiegato, e la propaganda di regime da un certo punto di vista è una post-verità; dall’antichità a oggi molteplici sono poi gli esempi, anche al di fuori della politica, in cui l’emotività e le convinzioni personali hanno finito per prendere il sopravvento sui dati oggettivi. In fondo più che di lingua stiamo parlando di mancanza di correttezza e di morale; e questo è un problema endemico purtroppo non strettamente legato al nostro tempo. Le caratteristiche e le dimensioni assunte dal fenomeno ai nostri giorni sono però diverse e ci sono alcuni fattori che in particolare devono essere sottolineati, tutti legati alla rete: la globalità, la capillarità, la velocità virale della diffusione delle varie post-verità; e poi la generalità e genericità degli attori che possono alimentarle, spesso con una propaganda nascosta e inaspettata che può provenire da pseudo-istituti di ricerca, da esperti improvvisati. E se tutto questo riguarda la produzione della post-verità, non meno preoccupante è l’analisi della sua ricezione: perché c’è una complicità molto forte da parte di chi “subisce” il dato emotivamente accattivante o di parte, visto che il dato è quasi sempre facilmente verificabile con mezzi endogeni, facilmente accessibili attraverso la stessa rete (mentre all’interno di un regime, ad esempio, non è certo facile contrastare la non veridicità dell’informazione della propaganda).
Del resto la lingua sarà uno degli strumenti che col tempo ci aiuterà a capire se davvero siamo di fronte a un fenomeno nuovo: se al di là della moda del momento la parola attecchirà nella lingua (la nostra, ma anche le altre lingue del mondo visto che il fenomeno è globale) evidentemente avrà riempito una casella semantica vuota riservata a descrivere un concetto caratterizzante, se non un’era, almeno una specifica congiuntura storica.
La rete ha senza dubbio delineato i connotati fondamentali di questa dimensione “oltre la verità”. ‘Oltre’ è il significato che qui sembra assumere il prefisso post-(invece del consueto ‘dopo’): si tratta cioè di un ‘dopo la verità’ che non ha niente a che fare con la cronologia, ma che sottolinea il superamento della verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza. E, analizzando le modalità in cui il superamento si concretizza di volta in volta, colpisce la vocazione profetica che la parola nasconde tra le sue lettere: la post-verità, infatti, spesso finisce per scivolare nella “verità dei post” (come è successo spesso sulla rete proprio in relazione alle campagne politiche legate alla Brexit o alle elezioni americane).
Gli Oxford Dictionaries ci indicano anche la prima attestazione di post-truth per l’inglese: il 1992. In quell’anno Steve Tesich, in un articolo apparso sulla rivista “The Nation”, scriveva a proposito dello scandalo e della guerra del Golfo Persico: «we, as a free people, have freely decided that we want to live in some post-truth world» (noi, come popolo libero, abbiamo liberamente deciso che vogliamo vivere in una sorta di mondo post-verità). Non è forse un caso che una delle prime attestazioni di post-verità (la prima finora rintracciata) sia in un articolo apparso sulla “Repubblica” il 1° maggio 2013, firmato da Barbara Spinelli, proprio in riferimento alla guerra del Golfo: «Sarà verità sovversiva, dice Letta, e invece siamo tuttora immersi in quella che è stata chiamata – da quando Bush iniziò la guerra in Iraq – l’era della post-verità: degli eufemismi che imbelliscono i fatti, dei vocaboli contrari a quel che intendono». Qui siamo di fronte a usi ancora settoriali; nel 2016 la parola è diventata viralmente comune.
In italiano post-verità è usato fin dalle prime attestazioni sia con valore di aggettivo sia come sostantivo, proprio per le peculiari trasformazioni funzionali all’adattamento: i sintagmi inglesi in cui si ritrova più facilmente (post-truth politics, post-truth society, post-truth era) favoriscono infatti, per le regole morfologiche italiane, il trapasso al sostantivo. Si veda ad esempio il sopracitato post-truth world, che diventa più naturalmente “mondo della post-verità” che “mondo post-verità” (in cui sarebbe privilegiato il costrutto anglizzante, per altro in grande ascesa nella nostra lingua recente); e, d’altro canto, l’era della post-verità della Spinelli cela un post-truth era, con post-truth aggettivo.
L’uso di post-verità come sostantivo è stato contrastato da alcuni (sulla base dello specifico significato che post-truth assume in inglese), ma è ormai molto diffuso sul web e sui giornali in riferimento alla pseudo-verità basata sull’emotività e sulle convinzioni personali a discapito dei fatti oggettivi; anzi, sembra ormai addirittura prevalente e con questo specifico significato è usato in quasi tutti i contesti e le accezioni in cui si potrebbe ricorrere a verità (la post-verità, le post-verità, ecc.), come del resto si è fatto anche in questo testo.