“Secondo lei, Renzi è sereno?”. Enrico Letta sfila rapido davanti alla telecamera sfoggiando un sorriso sornione, insieme a una vistosa sciarpa rossa. Non risponde. Quella domanda provocatoria, se la poteva aspettare. O forse non è la prima volta che se la sente rivolgere, l’ex capo del Governo, che in una fredda serata milanese infila la porta dell’aula De Donato del Politecnico, per tenere una lezione sui giovani e l’Europa. Questa volta, ci sta. E’ la stessa domanda che, con parole diverse, i giornalisti hanno cercato di fargli un paio di ore prima, a un incontro con i delegati lombardi della Cisl, che lo avevano invitato a parlare del futuro della rappresentanza sindacale. Sono del resto passate poche ore da quando Matteo Renzi, colui che tolse a Letta la poltrona di Palazzo Chigi nel febbraio 2014, ha dovuto riconsegnare l’ormai famosa campanella, per passarla a Paolo Gentiloni. Largamente sconfitto al referendum costituzionale, il leader del Pd è stato costretto a lasciare prima ancora di un passaggio elettorale che sognava plebiscitario. Letta, liquidato in pochi giorni, dopo essere stato invitato con un tweet proprio di Renzi a stare sereno, avrebbe potuto prendersi la sua rivincita. Stappare la bottiglia di prosecco. Convocare le telecamere, come hanno fatto autorevoli avversari di Renzi. O rilasciare interviste pontificanti per sostenere che lui l’aveva sempre detto che sarebbe finita così. Niente di tutto ciò è accaduto.
A ricordare il passato ruolo istituzionale di Letta, restano pochi indizi. I due agenti di scorta che lo accompagnano con discrezione negli appuntamenti pubblici, come accade con gli ex capi del Governo. E il capannello di giornalisti e telecamere che si ricompone di colpo ogniqualvolta ci sia aria di crisi politica a Roma. Quindi, spesso. Eppure, di fronte alle insistenze, la risposta di Letta è sempre cortese ma ferma: lui ha “lasciato la politica”. E giura che “non è” una pausa. Abbandonato dal suo partito, il Pd di cui è stato vicesegretario con Pierluigi Bersani, Letta ha maturato in pochi mesi la decisione di lasciare il Parlamento e fare altro. E’ andato a Parigi a insegnare all’Institute d’Etudes politiques, diventando direttore della scuola di affari internazionali di Sciences Po. Insegna nella capitale francese, vive un po’ lì e un po’ a Roma, dove abita con la moglie, la giornalista del Corsera Gianna Fregonara, insieme ai tre figli. Ormai due anni e rotti. In ogni suo discorso, l’ex premier tiene a sottolineare di essere soddisfatto di questa scelta. Come dell’altra: quella di fondare una Scuola di Politiche (al plurale, come insegnava il suo maestro Nino Andreatta, sempre citato insieme a Emmanuel Mounier e Mario Draghi) per avvicinare i giovani alla responsabilità pubblica, offrendo loro delle competenze.
Letta ha lasciato la politica. Ma a modo suo, dunque, continua a occuparsi di politica. Perché la insegna. Perché la trasmette alle nuove generazioni. Perché è invitato a parlarne. Per questo nei suoi spostamenti c’è sempre un ‘non detto’. Letta aspetta di tornare? Letta sta tornando? Oppure Letta ha deciso davvero di mollare per sempre la sua carriera istituzionale? Di ogni ragionamento che propone, si cerca una significato tra le righe, che però solo il tempo potrà confermare o smentire. All’incontro di mercoledì pomeriggio con i delegati lombardi della Cisl – in un’alienante palazzina alla periferia nord-est di Milano, non distante dai disagi di via Padova, dove la sinistra locale ha invocato i militari per strada – si parla apertamente del congresso del 2017. Della necessità di trovare una nuova forma di rappresentanza, un nuovo rapporto di fiducia con la base, un nuovo progetto per il futuro. Ma quello di cui parla Osvaldo Domeneschi, il segretario lombardo della Cisl, non è il congresso del Pd, ma appunto quello del sindacato cattolico. Letta però coglie l’occasione per dire che tutto è cambiato, nel sindacato come nella politica. Perché tutto è disintermediato e desacralizzato, quindi imprevedibile: “La crisi è la nuova normalità. Basta vedere che cosa è accaduto nel 2016. Se a inizio anno ci avessero detto che la Gran Bretagna sarebbe uscita dall’Ue, che Trump sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti e che in Italia sarebbe successo quello che è successo, avremmo risposto: che cosa vi siete fumati? E’ invece è accaduto tutto questo. Il 2016 è stato l’anno dell’imprevedibilità, che ha scombinato la bussola”. La gente decide che cosa votare di giorno in giorno. Non si fida più, riconosce Letta, delle verità calate dall’alto. E nemmeno delle deleghe in bianco. Un anedotto che all’ex premier piace raccontare, è quello delle simulazioni di trattative internazionali che organizza con gli studenti a Parigi: dice che una delle abilità che cerca di insegnare è di affrontare un repentino cambio delle regole di gioco. Perchè i patti spesso non vengono mantenuti da uno dei contraenti. Ognuno la legga come vuole.
Al Senato, intanto, si sta votando la fiducia al governo Gentiloni. La fotocopia del Renzi che aveva preteso Palazzo Chigi quasi tre anni fa. A Milano, Letta ripete che “il virus di questi tempi è il corto-termismo”. Per i politici, pensare che basti un tweet o un banchetto in piazza per decidere del futuro di un Paese. Per i cittadini, illudersi che i risultati di ogni decisione siano valutabili l’indomani mattina. In sala, nessun politico Pd, tranne un vecchio consigliere regionale ormai lontano dai giochi, come Giuseppe Adamoli, ex dc e colonna lombarda della Margherita da cui provengono sia Letta sia Renzi sia Gentiloni. Un po’ poco, per pensare che l’ex premier stia preparando le truppe per un rientro in scena. Al referendum costituzionale Letta si era addirittura schierato per il Sì, a differenza di tutta la vecchia guardia alla Bersani e D’Alema. Perché, nonostante tutto, rivendicava di aver avviato un percorso di riforme istituzionali in cui credeva. Nessuna personalizzazione, da parte sua. Se si cercano notizie su Letta in questi mesi emerge appena un tweet fake, dopo la sconfitta del 4 dicembre, con un #matteostaisereno. E uno scambio gelido, sempre via Twitter, con la blogger Selvaggia Lucarelli. Nient’altro.
Letta si rimette il cappotto sopra il completo spezzato e la cravatta regimental dai toni spenti. Si annoda la sciarpa rossa. Sale sul sedile posteriore della Volkswagen coi vetri oscurati e raggiunge nella nebbia il Politecnico di Milano. Gentiloni ha ottenuto la fiducia del Senato. Che ora Renzi sia sereno o no, Letta è convinto che occorra investire sul futuro, proprio per evitare quello che ha definito “corto-termismo”. Ha una sua idea di politiche che vadano oltre le vecchie etichette: parla di green economy, dell’utilità di un reddito di cittadinanza, della bontà del web come sinonimo di libertà, ma anche del necessario recupero di un atteggiamento di rispetto delle istituzioni. L’ex premier lo ripete agli studenti del progetto Jump, un percorso formativo realizzato dalla Fondazione Rui, a cui spiega che bisogna anche trovare nuove ragioni per rimanere in un’Europa unita, perché la foto di Kohl e Mitterand mano nella mano al cimitero di Verdun non basta più. E queste ragioni, ovvero la necessità di non essere schiacciati dall’egemonia di Usa e Cina, vanno costruite attraverso la passione ma anche la formazione: “La politica conta, conterà nella vostra vita, impegnarsi in politica non è un optional. Ma non fate i politici di professione, abbiate una vostra professione e impegnatevi in politica. Se sei politico di professione, alla fine non sei in grado di avere gradi di libertà di fare alcune scelte. Siate fuori dal mainstream, fuori dagli schemi della politica, perché gli schemi tradizionali sono finiti”. Anche in questo caso, ognuno la legga come vuole.
Dopo la sconfitta di Renzi, alcuni retroscena di stampa hanno ipotizzato il ritorno in politica di Letta in occasione del prossimo congresso del Pd. Non come candidato segretario, ma come candidato premier. In entrambi i casi, sarebbe contro Renzi. Nessuna conferma né smentita ufficiale dal diretto interessato. Lui fa il professore che parla di politica. Non è un trascinatore di folle. Il 20 agosto ha compiuto 50 anni, l’età in cui si può diventare presidenti della Repubblica. E’ già stato ministro nel 1998 e nel 2000, battendo Giulio Andreotti come il più giovane membro del Governo nella storia repubblicana. E’ stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel 2006, dieci anni prima di Maria Elena Boschi. Poi capo del governo nel 2013. Non c’è fretta, insomma. Anzi, forse il ritorno in politica di Letta, il cui eloquio monocorde resta molto diverso da quello dei leader arrembanti di oggi, ci sarà ma proprio quando si sarà esaurita l’epoca della fretta e molta acqua sarà passata nel fiume. Altrimenti il rischio è di finire stritolato dal “corto-termismo” tanto criticato. Potrebbe essere un Francois Fillon della sinistra italiana, quasi. Almeno questo sembra indicare il profilo di sobrietà scelto in questi mesi di possibili soddisfazioni personali. Letta è intanto l’unico della stagione politica in corso ad aver detto di volersi ritirare e ad averlo fatto per davvero. Fino a prova contraria, ovviamente. Perché tre anni scarsi sono ancora nulla in confronto all’eternità politica.
@ilbrontolo