Formigoni, il leader mancato (e ora condannato)

Per l'ex governatore della Lombardia 6 anni in primo grado per corruzione: "Ma sono innocente, farò ricorso". La sentenza intanto chiude una parabola di potere ventennale

Anche dopo essersi ritrovato in una posizione defilata nel panorama politico, Roberto Formigoni non ha mai smesso di avere la battuta pronta sul suo ruolo. “Certo che potete chiamarmi ancora presidente, presidente è una categoria dello spirito”, ha risposto una mattina dello scorso anno ai giornalisti che lo avevano avvicinato per capire come sarebbe andata a finire la trattativa sulla nuova legge elettorale. Perché Formigoni, per diciotto anni potente presidente della Regione Lombardia, cattolico, ciellino, aspirante leader del centrodestra, è rimasto presidente anche dopo, ma alla commissione Agricoltura del Senato. Un ripiego seguito alla fine anticipata del suo ultimo mandato da governatore, in attesa di essere processato. Ora che il Tribunale di Milano lo ha condannato a sei anni, in primo grado, per corruzione nell’ambito delle inchieste su Maugeri e San Raffaele, con contestuale interdizione dai pubblici uffici, si può mettere un punto fermo sul quasi ventennio formigoniano alla guida della prima regione italiana. Una pagina politica che si chiude, anche se non la pagina giudiziaria definitiva, perché i legali dell’ex governatore ricorreranno in Appello, per ribaltare il verdetto.

Formigoni, per interpretare il pensiero dei suoi fedelissimi, è stato oggetto di una caccia grossa. Lo hanno paragonato a Bettino Craxi o a Silvio Berlusconi. Per dirla con gli avversari, il centrosinistra dal Pd a Sel ma anche i Cinque Stelle, si stava invece avvicinando la logica conclusione della sua lunga carriera politica segnata, hanno sempre detto, da un’eccessivo potere di relazione. Finora Formigoni era comunque sempre uscito con la testa alta da ogni inchiesta che, di fatto, ha puntellato tutto il quasi ventennio lombardo, caratterizzato soprattutto da una riforma della sanità in cui i privati hanno guadagnato un ruolo fondamentale. “Ho avuto dodici assoluzioni per dodici processi, sono limpido come acqua di fonte”, due altre frasi ripetute spesso dal Celeste in questi ultimi anni di parabola discendente. L’ultimo processo è stato però quello che ha riassunto in sé tutto il peggio che gli avversari avevano sempre contestato alle modalità di gestione delle istituzioni da parte sua: aver utilizzato proprio la sanità, e in particolare i rapporti con quella privata, per alimentare il proprio giro di potere. E anche il proprio stile di vita. I giudici hanno condannato Formigoni per corruzione, caduta l’imputazione di associazione a delinquere, convinti che abbia lucrato sulla sua posizione politica. Secondo l’accusa, infatti, dalle casse della Fondazione Maugeri di Pavia sarebbero usciti circa 61 milioni di euro, fra il 1997 e il 2011, mentre altri 9 milioni sarebbero usciti fra il 2005 e il 2006 da quelle del San Raffaele, per confluire sui conti di due presunti collettori di tangenti, Pierangelo Daccò e Antonio Simone. Entrambi condannati insieme all’ex governatore, secondo i magistrati avrebbero garantito in questo modo a Formigoni circa 8 milioni di euro di “utilità” – benefits di lusso, come viaggi e disponibilità di yacht – in cambio di rimborsi indebiti per prestazioni sanitarie effettuate appunto da Maugeri e San Raffaele.

Se caccia grossa è davvero stata, il trofeo è ricco. Perché con la sentenza di primo grado, arriva una prima rilettura, anche se non definitiva, di una pagina importante della seconda repubblica. Formigoni aveva dato un palcoscenico politico al cattolicesimo militante di Comunione e Liberazione. Aveva saldato questa sua militanza al berlusconismo ma anche al leghismo con ambizioni da sindacato del territorio. L’ambizione politica personale, mai nascosta, era di fare il salto a livello nazionale. Come ministro di primo piano, magari agli Esteri. O anche, una volta consumata la parabola berlusconiana, alla guida di un nuovo centrodestra. Ma Formigoni non ci era mai riuscito, a fare questo salto. Un po’ perché troppo legato al territorio lombardo e agli interessi troppo specifici del movimento ciellino. Un po’ perché il suo carattere gli ha sempre procurato diffidenze fra gli alleati-avversari, compreso probabilmente Berlusconi, con il quale Formigoni ha mantenuto un rapporto di amore e odio. Così sono state le ultime inchieste giudiziarie a farlo uscire di scena dalla Lombardia dopo averla governata per ben diciotto anni dal 1995 al 2013. Fu la Lega di Roberto Maroni (poi nuovo governatore) ma soprattutto dell’emergente Matteo Salvini a staccare la proverbiale spina, dopo l’arresto per sospette collusioni con la mafia dell’assessore Domenico Zambetti. Nato democristiano, cresciuto nella variegata eredità della Balena Bianca – prima il Cdu, poi la confluenza in Forza Italia, quindi nel Pdl, poi il passaggio a Ncd e, ora, in Area Popolare – Formigoni vede ora profilarsi un’uscita di scena definitiva dalla politica. Il 30 marzo prossimo compirà 70 anni. Negli stessi mesi si tornerà probabilmente a votare per elezioni Politiche anticipate. E difficilmente troverà una collocazione, dopo una legislatura da senatore seguita all’abbandono della Regione. Subito dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, i grillini ne hanno chiesto la testa come presidente della commissione Agricoltura di Palazzo Madama.

Formigoni ha letto la sentenza di primo grado come una sentenza personale, perché “i dirigenti sono stati assolti”. Quindi, l’operato della Regione è stato corretto, dice rivendicando anche una gestione dei bilanci in equilibrio. “Mai – giura – ho ricevuto vantaggi per piegare la mia attività di amministratore”. E conta quindi di vedersi riconosciuta l’innocenza in un processo di Appello. Per ora però la sentenza Maugeri-San Raffaele ha messo un punto a una lunga storia politica. Senza contare i risvolti personali: i giudici milanesi hanno confiscato a Formigoni beni per 6,6 milioni di euro. Difficile, in queste condizioni, rimanere presidenti, anche se nello spirito.

@ilbrontolo

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