Se c’è un elemento che distingue i film con cui crescono i bambini degli anni Duemila da quelli con cui siamo cresciuti noi nel Novecento, questo non è l’utilizzo di tecnologie di animazione all’avanguardia. È un’altra cosa, e paradossalmente riguarda l’unico aspetto che non dipende dai budget né dalle tecnologie che si hanno a disposizione. È una cosa che riguarda un aspetto più profondo, l’unico che ancora si fa analogicamente e che non trae vantaggio dal tempo che passa e dalla tecnologia informatica: la scrittura.
Negli ultimi anni ci siamo abituati a un nuovo genere di prodotto cinematografico animato per bambini decisamente all’avanguardia. La sua prerogativa? Conquistare i più piccoli e fare sentire intelligenti i più grandi: Shrek, Madagascar, Lego The Movie, Up, Inside Out, l’elenco è corposo e contiene anche film riuscitissimi, il cui doppio livello di lettura si è fatto sempre più fine, tanto da arrivare — in particolare con Inside Out, che in fondo è un trattato di psicologica cognitiva travestito da favola — a un livello difficilmente superabile di complessità.
Tutto bellissimo e decisamente anche molto funzionale, tanto che i risultati sono sempre stati ottimi, sia nel responso del pubblico al box office che in quello dei critici, quasi unanimi nel plauso. Un’unica cosa, all’uscita dalla sala, poteva alimentare i dubbi e poteva gettare qualche ombra sulla nouvelle vague dei film per bambini anni ’10: a differenza dei tradizionali film per bambini, la compresenza di un piano che potevano capire solo i genitori e che, di conseguenza, escludeva i più piccoli, inserivano nell’esperienza familiare un piccolo neo, una sorta di tradimento dei grandi contro i piccoli, tenuti all’oscuro del significato profondo del film.
Per fortuna non sono bastati una decina di esperimenti riuscitissimi per decretare la fine di quel piccolo mondo antico in cui, quando si andava al cinema con dei bambini, al centro dello spettacolo c’erano loro e solo loro. Un mondo in cui si andavano a vedere film che parlavano prima di tutto a loro, film dentro i cui reticoli narrativi erano lori bambini a guidare gli adulti, non il contrario.
La prova che questo mondo è ancora un mondo per film per bambini ce la mette sul piatto il buon Steven Spielberg, che rispolverando una grande classico della letteratura per l’infanzia come il GGG di Roald Dahl — uno che, tra l’altro, proprio solo per i bambini non scriveva mai — riesce a fare esattamente quel genere di film lì, quello di cui stavamo perdendo le tracce, quanto meno per le fasce d’età superiori ai sette anni.
Il GGG è un film così. Un vero film per bambini come si facevano una volta. Uno di quelli che iniziano di notte davanti all’entrata di un orfanotrofio e che finiscono con il mettere in scena una storia improbabile e surreale di amicizia tra qualcosa di tenero come una bambina e qualcosa di scontroso come un gigante. Un film sinceramente tenero, ma anche divertente, uno di quelli che giocano con il linguaggio creando un vocabolario di parole irresistibili e fracassone, storpiate con maestria, con divertimento. Un film che, dopo praticamente due ore, tra dispetti dei cattivi, colpi di scena telefonati ma ben raccontati e rocambolesche e gustose peripezie, ha il coraggio di finire nientedimeno che con la Regina d’Inghilterra, ma anche con una irresistibile colonna sonora di frizzanti scoregge capace di scatenare l’applauso e le risate degli under 15 presenti in sala, certo, ma anche quelle liberatorie dei loro genitori, che, almeno per due ore, sono tornati esseri semplici e spensierati, finalmente all’altezza dei loro figli.