Il tramonto di Jim Messina, il guru che non sa più vincere

Il 2016 è stato per lui un annus horribilis: ha perso con la Brexit, ha sbagliato con la Clinton, non ha fatto vincere Rajoy. Perfino con Renzi è andata male. Forse le formule che funzionano in America non sono esportabili nel resto del mondo

Proprio bravo Jim Messina. Dopo essersi preso – pare – 400 mila euri di compenso, ha messo in campo tutto il suo sapere e la sua spregiudicatezza politica per condurre Matteo Renzi alla vittoria del referendum costituzionale. Visto come è andata, il problema è capire se il guru americano non abbia messo abbastanza sapere o spregiudicatezza in campo oppure se, pur avendone a iosa, non siano servite a nulla. La questione sarà materia di dibattito a lungo, non esistendo una risposta sicura.

Il consulente di Renzi, del resto, veniva da un 2016 molto promettente. Aveva aiutato David Cameron nella battaglia per il Remain (ha vinto il Leave), aveva gioito per i buoni risultati in Florida, aspettandosi una forte vittoria della Clinton (ha vinto Trump). Ha aiutato anche Mariano Rajoy in Spagna a “non vincere”, come direbbe Bersani – alla fine al governo ci è salito lui lo stesso, ma per accordi di palazzo e non per acclamazione elettorale. Insomma, il tocco del mago delle elezioni si è un po’ appannato. Adesso, con il bel risultato di Matteo Renzi al referendum, dovrà cominciare ad abbassare i termini per il suo ingaggio.

Povero Jim. Andava tutto così bene nel 2012, quando aiutò Obama a vincere contro Romney, o nel 2014, quando aiutò Cameron a vincere il referendum in Scozia. Andava perfino meglio nel 2015, quando riuscì a far rivincere le elezioni al premier britannico (fu una sorpresa). Cosa è successo, allora? Forse che il “re dei numeri”, “l’esperto di big data”, il più analitico di tutti, non sia più in grado di fare il suo lavoro? Oppure, come pensano in molti, il mondo sta cambiando con una velocità che nemmeno un grande esperto di flussi e voti riesce a tenere il passo? Chi può dirlo.

L’Italia, in ogni caso, è un Paese refrattario al fenomeno dei guru americani. O almeno così pare: Stanley Greenberg, nel 2001, era stato scelto da Francesco Rutelli per la sua campagna elettorale disastrosa. Nel 2006 la malasuerte del genio americano toccò a Berlusconi, che ingaggiò Karl Rove (che aveva seguito la campagna di George W. Bush) per recuperare lo svantaggio, ma non bastò. Mario Monti, in uno slancio quasi incomprensibile, decise di affidarsi a David Axelrod, l’uomo della campagna di Obama del 2008, per le elezioni del 2013. Non puntava a vincere, ma il risultato andò ben al di sotto delle sue aspettative. Stavolta è toccato a Jim Messina, e la storia è andata allo stesso modo.

Non è chiaro cosa avrebbe potuto fare di più. La sensazione, registrata da più parti, è che lo stratega abbia impostato una campagna con soluzioni tardive e abborracciate. Secondo alcuni sarebbe stato lui a ordinare di rispolverare il modello della coppia presidenziale, invitando Matteo Renzi ad apparire di più insieme alla moglie Agnese Landini. Una figura tutto sommato allogena per gli italiani, ricalcata sul binomio Presidente & First Lady in voga negli Usa. Ma non solo: sarebbero attribuibili a Messina altre ideuzze, come togliere la bandiera europea dall’arredamento di sfondo ai suoi video-messaggi (un inseguimento disperato del voto anti-europeo), o insistere con i sms fino all’ultimo, o le adunate di popolo, o la “sparizione” della Boschi, inviata in Argentina a raccogliere il voto degli italiani all’estero (come è noto, molto aderente a quello che dice la stampa straniera). Tutto vano, più o meno.

E allora, incassata l’ennesima sconfitta del 2016, Jim Messina può prendersi un po’ di vacanza, in attesa di una nuova consulenza, di una richiesta di aiuto, di un altro ingaggio. E Matteo Renzi, da solo, continuerà la sua partita, pensando che, quando lui non c’era, vinceva. E giocava perfino con la Playstation.

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