C’è un altro referendum alle porte. Uno di quelli che, come l’ultimo sulle modifiche alla Costituzione, è capace di attirare più elettori del previsto alle urne e di stravolgere il quadro politico. Certo stavolta ci sarebbe il quorum, ma dalle parti del governo non si crogiolano in ottimistiche previsioni di astensione. Il referendum sull’articolo 18, perchè di questo stiamo parlando, fa paura: ancora una volta coagulerebbe tutta l’opposizione, come il 4 dicembre e come nel giugno 2011 i quesiti su nucleare e acqua “bene comune” contro il governo Berlusconi.
Però non sono tanto il Pd o la maggioranza che dovrebbero preoccuparsi, ma milioni di lavoratori e disoccupati, messi di fronte a un dibattito tormentone che ancora una volta sembra avere poco contatto con i fatti reali.
Se il referendum si facesse e almeno nel quesito sull’articolo 18 (gli altri sono su voucher e subappalti) vincesse il Sì, non solo tornerebbe il reintegro, ma questo sarebbe ripristinato anche per tutti i lavoratori sopra i 5 dipendenti, come ha spiegato Pietro Ichino, grazie a un gioco di abrogazione solo di alcune norme e non di altre della legge Fornero del marzo 2012, oltre che del più recente Jobs Act.
C’è un’emergenza che riguarda i licenziamenti di persone assunte a tempo indeterminato? No, a guardare i dati Inps
Sarebbe questo quello di cui il mondo del lavoro ha veramente bisogno? C’è un’emergenza che riguarda i licenziamenti di persone assunte a tempo indeterminato?
Dagli ultimi dati Inps emerge come nei primi 10 mesi del 2016 la maggioranza delle cessazioni dei contratti del lavoro a tempo indeterminato riguardi dimissioni spontanee. I licenziamenti veri e propri, che siano per giusta causa o giustificato motivo economico o esodo incentivato, sono stati il 38,7 per cento. In aumento di un 4% rispetto al 2015, è vero, ma solo dell’1% rispetto al 2014, quando per esempio il Jobs Act non era ancora in vigore.
Se guardiamo ai dati assoluti abbiamo nel 2016 (gennaio-ottobre) un valore addirittura inferiore al 2014, con 507 mila licenziamenti contro i 514.500 del 2014 (sempre gennaio-ottobre). È quindi arduo dire che la legge sul lavoro abbia provocato un aumento dei licenziamenti a tempo indeterminato. Lo vediamo anche con i dati mese per mese:
Quanti sono veramente gli interessati a questa battaglia politica? Pochi, considerando l’altissimo numero di precari, soprattutto tra i giovani
Non si intravedono dei boom, e anzi i dati sembrano seguire un trend simile a quello delle dimissioni, apparentemente dando ragione a chi ritiene che negli ultimi tempi l’introduzione della comunicazione telematica prima delle dimissioni stesse abbia provocato un aumento di licenziamenti, in realtà fittizi, che rendono più semplice il distacco dal posto di lavoro, in particolare per chi non ha competenze informatiche, per esempio gli immigrati.
Consideriamo anche che la gran parte degli assunti con il Jobs Act ancora rientra nel programma di decontribuzione, quindi, è facile immaginare che la maggior parte dei licenziati erano stati assunti con il vecchio sistema. In ogni caso dobbiamo rapportare questi numeri, ossia il mezzo milione di licenziamenti, allo stock di 17 milioni e 367 mila dipendenti a tempo indeterminato, si tratta di meno del 3%, destinato a salire di qualche decimale se prendessimo il valore totale annuo.
Qui veniamo però a un punto fondamentale. Quanti sono veramente gli interessati a questa battaglia politica? C’è un aspetto psicologico certamente da non sottovalutare, ovvero tutti sperano un domani di essere assunti a tempo indeterminato e vorrebbero nell’evenienza avere un contratto che quanto più si avvicini all’agognato posto fisso.
La realtà attuale è che però siamo contemporaneamente tra i Paesi con meno lavoratori sulla popolazione totale e con più precari tra coloro che hanno un impiego. Anzi, nel primo caso siamo record europeo, il Paese con meno attivi, ovvero persone che hanno un lavoro o lo cercano. Questi sono solo il 64%, contro l’84% della Svizzera, il 77,6% della Germania, il 72,5% della media Ue. Particolarmente bassa la proporzione di attivi tra i giovani, tra i 15 e i 24 anni, e, come sappiamo, tra le donne.
Allo stesso tempo siamo tra gli Stati con più lavoratori temporanei, precari, in Europa, in particolare tra i più giovani. Paradossalmente ancora più tra i locali, il 59%, che tra gli extracomunitari, solo il 38,8 per cento. Qui probabilmente conta molto l’incidenza del nero tra questi ultimi.
La differenza tra lavoratori più giovani e più anziani è evidente: tra gli ultimi i precari sono pochissimi, solo il 5,5%, sotto la media UE, tra l’altro un dato stabile o in leggero calo, mentre tra i più giovani vi è un costante aumento, dal 37,4% del 2005 al 59% del 2015, appunto.
Consideriamo che siamo anche tra i Paesi con più lavoratori indipendenti, che siano vere o finte partite Iva, commercianti, professionisti, imprenditori. Così nel complesso la percentuale di persone di ogni età con un lavoro a tempo indeterminato è del 65,2%, quelli a tempo pieno sono il 53,4 per cento.
La discussione politica nei prossimi mesi sarà ferma lì, a quell’1%, ancora una volta trascurando il 42% e passa di non occupati, il 59% di giovani che sono precari, il 74% di 15-25 enni che non hanno un lavoro, e non lo cercano
Si tratta in realtà del 65,2% del 57,3%, ossia del tasso d’occupazione dell’ultimo trimestre. In altre parole solo il 37,4% delle persone in età attiva, o il 30,6% se eliminiamo i part time, ha un lavoro permanente.
Ecco, stiamo parlando della possibilità che la proporzione di licenziati a tempo indeterminato, circa il 3% di questa minoranza, ovvero poco più dell’1% del totale della popolazione in età di lavoro, possa diventare qualche decimo più o meno grande, man mano che sarà il Jobs Act sarà in vigore per un numero crescente di lavoratori.
Come già accaduto spesso in passato nei prossimi mesi la discussione politica potrebbe essere ferma lì, a quell’1%, ancora una volta trascurando per esempio quel 42% e passa di non occupati, il 53% nel caso delle donne, quel 59% di giovani che sono precari, quel 74% di 15-25 enni che non hanno un lavoro, e non lo cercano, e dentro cui si nasconde l’amplissimo gruppo di coloro che neppure studiano, visto che abbiamo il record negativo di laureati in Europa.
Nel Paese in cui di fronte ai problemi economici si dice che “deve tornare la politica”, questo sarà il più grande esempio che sarà tornata.
Sotto la veste di una discussione totalmente ideologica e avulsa dalla realtà.