Come Tesla, più di Tesla. C’è una nuova batteria che intende surclassare il gigante guidato da Elon Musk, uno che vuole portare l’umanità su Marte, rendere di massa le auto elettriche e molto altro ancora. Tra questo altro c’è il sistema di batterie – domestiche e non – che accumulano l’energia elettrica prodotta – anche – dagli impianti fotovoltaici. Batterie che, per l’auto o per la casa, saranno prodotte in una gigafactory da miliardi di euro di investimento. Di fronte a questo gigante si trova una startup azienda italiana, la Green Energy Storage, fondata nel 2015. Ha sviluppato una batteria che sfrutta nello specifico una molecola prodotta dalle piante durante la fotosintesi – chiamata chinone – facilmente estraibile dal rabarbaro e da altri vegetali, biocompatibile e a basso costo. Il suo presidente è l’ingegnere informatico Salvatore Pinto, che ha alle spalle cariche di responsabilità in Olivetti, Italtel, Pirelli, Telecom Italia, IPM Group e Telespazio. A Linkiesta spiega che la tecnologia delle batterie di Tesla, basata sugli ioni di litio, non avrà rivali nel mondo dell’automotive, a causa dell’intensità richiesta dai motori elettrici. Ma sull‘altro versante, quello dell’accumulo di energia per gli impianti rinnovabili, domestici e ancor di più di grandi dimensioni, la convenienza della tecnologia che utilizza Green Energy Storage non ha paragoni.
O meglio non avrà paragoni, perché è più corretto parlare al futuro: la società è nel mezzo di un percorso di sviluppo che prevede la produzione su larga scala nel 2020. Per allora è prevista un’innovazione nella tecnologia che permetterà di rendere le batterie totalmente alcaline e non tossiche. «È un po’ come andare su Marte – dice Pinto a Linkiesta -. Prima bisogna realizzare la stazione orbitale, poi andare sulla Luna e infine si può andare su Marte. Noi allo stato attuale abbiamo una piattaforma basata sul chinone, che è assolutamente non tossico, e sul bromo, che invece rimane tossico. Ma si tratta di una piattaforma che contiamo di far evolvere, per arrivara entro due anni verso una batteria totalmente alcalina. A quel punto non ci sarà alcun residuo tossico».
Due i vantaggi principali della tecnologia che la società sta sviluppando: arrivare all’assenza totale di tossicità e costi molto bassi, pari a 200 dollari a kilowattora
Questo significa che la batteria, a sviluppo tecnologico completato, non avrebbe alcun problema di smaltimento. Un vantaggio non da poco, se si pensa che le batterie si potrebbero installare sugli impianti fotovoltaici già presenti in giro per il mondo. Il secondo obiettivo al 2020 è avere un costo di 200 dollari per kilowattora. Poco, al punto che «i nostri conti non sono basati sulla presenza di incentivi», spiega il presidente di Green Energy Storage. Come ci si arriverebbe? «La nostra tecnologia – risponde Pinto – costa dieci volte di meno rispetto a quelle basate su altri elementi corrosivi, come il vanadio, che vengono utilizzati nelle flow battery. È un back-to-technology che consente di ridurre drammaticamente i costi».
Dal punto di vista tecnico, aggiunge, «le flow battery in generale si differenziano da quelle al litio, come quelle di Tesla, perché la parte di potenza è divisa dalla parte dove viene accumulata l’energia». Per fare batterie via via più grandi, quindi, basterbbe allargare il tank con il liquido contenuto all’interno, perché l’energia è contenuta nel liquido.
La tecnologia si basa di un brevetto di Harvard. Dall’ottobre 2015 è stata fatta una partnership con Tor Vergata per replicare l’esperimento di Harvard e per avere un laboratorio su cui testare le chimiche e le tecnologie a livello di una piattaforma da un watt. «Abbiamo poi stretto una partnership con la Fondazione Bruno Kessler di Trento – spiega Pinto -, dove abbiamo ingegnerizzato, prima su single cell da 50 watt, poi su un prototipo da un kW preindustriale, per poi arrivare a quello da 3 kW appena presentato». Altre collaborazioni sono state strette con la società De Nora (elettrodi), con l’università danese di Aarhus e con due utility, per accelerare la fase di test: Sorgenia in Italia e la municipalità di Losanna.
«Il nostro obiettivo era arrivare il prima possibile sul mercato. Non vogliamo commettere l’errore che si è fatto con le rinnovabili, dove i produttori sono tutti in Cina»
Il percorso di sviluppo sarà sia tecnologico sia produttivo. Entro il 2020 il piano industriale prevede di aprire quattro sedi nel mondo: gli headquarter sarebbero a Boston (dove l’azienda conta di aprire la base dopo il prossimo giro di fundraising in Nord America), la sede europea in Trentino (dove è nata), mentre altri impianti saranno sviluppati in Australia e negli Emirati Arabi.
La conclusione è una frecciata al sistema tecnologico europeo e italiano in particolare, che ha già perso molti treni in passato. «Il nostro obiettivo era arrivare il prima possibile sul mercato. Riteniamo che questo sia il mercato del prossimo futuro e non vorremmo commettere l’errore che si è fatto con le rinnovabili, dove i produttori sono tutti in Cina. Noi potremmo creare in Italia qualcosa di importante».