Il grillo parlanteMediaset e le altre: la gran balla dell’Italia sotto attacco e degli stranieri predatori

Non è vero che gli stranieri perfidi ci stanno strappando le nostre aziende-gioielli di famiglia. E non è vero che attrarre investimenti dall’estero sia un male. È invece fondamentale che l’Italia rientri in circuiti economici che sono, e restano, globali

«Qui è in gioco l’azienda Italia»: è stata questa la prima preoccupazione espressa da Gentiloni appena diventato presidente del Consiglio. A mettere ansia al Governo italiano è, non solo, la fragilità di un sistema bancario che rischia di trascinarci verso la crisi finale; ma anche la prospettiva di farci scippare da stranieri perfidi gli ultimi gioielli. Ma è proprio così? È vero che siamo terra di conquista e vittima di complotti di una qualche Spectre che manovra elezioni e politici con l’obiettivo di addomesticarci più facilmente?

Preoccupano le banche italiane, a cominciare da Monte dei Paschi di Siena, che possono portarci fuori dall’euro: una possibilità che, ormai, in Germania si valuta come non più inconcepibile. E preoccupa la scalata ostile che Vivendi starebbe lanciando su Mediaset diventato uno degli ultimi gioielli di famiglia che rischiamo di perdere. L’idea è quella dell’accerchiamento: voraci avvoltoi avrebbero, per anni, complottato per farci abbassare le difese, ci hanno convinto ad aderire a regole del gioco (a partire da quelle sull’euro) sfavorevoli e aspettano, ora, di spartirsi ciò che rimane di quella che solo vent’anni fa fu, per qualche mese, la quarta potenza economica del mondo.

Non è vero che avere gli stranieri in casa faccia male. Esiste una letteratura consolidata che dimostra che gli investimenti esteri contribuiscono più di quelli interni a generare crescita. Gli investimenti diretti dall’estero restano una delle leve che più efficacemente possono trasformare un Paese

I numeri raccontano, in realtà, una storia diversa. Non è vero, intanto, che avere gli stranieri in casa faccia male. Esiste una letteratura consolidata che dimostra che gli investimenti esteri contribuiscono più di quelli interni a generare crescita ed, ancora di più, un aumento della produttività nei Paesi ospitanti attraverso trasferimento di tecnologie. Ovviamente questo effetto si abbassa se l’investimento è solo tattico (compro un’impresa per eliminare un concorrente o acquisirne i clienti) o se il Paese che è destinatario dell’investimento non ha la capacità (ad esempio in termini di competenze) necessarie per assorbire le tecnologie esportate. Ma gli investimenti diretti dall’estero restano una delle leve che più efficacemente possono trasformare un Paese.

Semmai l’Italia di investimenti esteri ne attrae pochi. Se consideriamo il periodo di massima debolezza (dopo la crisi del 2007 e fino ad oggi) siamo – secondo i dati della Banca Mondiale – al ventiseiesimo posto con un valore che è tre volte più piccolo di quello della Spagna.

Non è vero, neppure, peraltro, che siamo solo “preda”. Sempre nello stesso periodo (dal 2008 ad oggi), secondo l’Ice, il fatturato delle imprese straniere partecipate da italiani è cresciuto staccando nettamente quello di aziende italiane “catturate” da stranieri. Che è, invece, diminuito. Con una precisazione peraltro: mentre Stati Uniti, Francia e Germania rappresentano più del 50% degli investitori stranieri in Italia, gli italiani detengono imprese in molti più Paesi e, per smentire un altro mito, siamo molto più presenti noi in Cina che non i Cinesi in Italia (come del resto è normale).

Ora è vero che in alcuni, pochi, casi va salvaguardato il controllo di un’impresa. Sarebbe stato il caso di Telecom – e non lo fu! – perché essa detiene una infrastruttura di cui garantire l’accesso (ma, a quel punto, il controllo si esercita attraverso lo Stato e non già un imprenditore al quale semplicemente succede di avere passaporto italiano). In tutti gli altri casi l’italianità non significa nulla.

Non è vero, neppure, peraltro, che siamo solo “preda”. Sempre nello stesso periodo (dal 2008 ad oggi), secondo l’Ice, il fatturato delle imprese straniere partecipate da italiani è cresciuto staccando nettamente quello di aziende italiane “catturate” da stranieri. Che è, invece, diminuito

E nulla significa per Mediaset che è, peraltro, un’impresa in un settore maturo, senza esserne leader (è – secondo l’Institute of Media and Communications Policy – al quarantasettesimo posto nel mondo tra le imprese che producono o distribuiscono contenuti) e senza neppure avere idee (l’unica è stata quella di comprare diritti televisivi del calcio in un momento nel quale – sia quello allo stadio che nel tinello – se ne stanno allontanando tutti). Non è necessariamente Vivendi l’impresa che può scuotere un’azienda come Mediaset alle prese con una complessa transizione familiare: di sicuro però il Governo non c’entra (se si superassero i confini oltre i quali c’è una posizione dominante tocca alle autorità competenti farsi sentire).

Stesso ragionamento varrebbe, del resto, per le banche semmai ci fosse qualcuno interessato. Aldilà delle vicende spesso incomprensibili di Monte Paschi di Siena, il settore sembra aver – con qualche eccezione importante come la stessa Intesa San Paolo – aver esaurito da tempo le idee. La sua crisi è, del resto, la crisi di un settore maturo come quello dell’edilizia (vi si concentrano il 40% delle sofferenze), nel quale le banche italiane non sono state capaci di “sentire” trend innovativi potenti (come quello delle case intelligenti).

Fondamentale sarebbe per l’Italia rientrare in circuiti economici che – nonostante il fantasma del protezionismo agitato da tutti in campagna elettorale e, inesorabilmente, riposto quando si comincia a governare – sono destinati a rimanere globali. Per crescere, prima di tutto, in termini di idee. Rinunciando ad annunci poco credibili e diseducativi per una società che ritorna ad essere civile se rimane aperta.

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