E se alla fine, messo l’orgoglio da parte, un’acquisizione da parte di Vivendi fosse un affare per Berlusconi? Se fosse la chiave per risolvere il tema del passaggio generazionale e una prospettiva strategica che con gli anni si fa più incerta? Oggi la battaglia è in corso. Tra Mediaset e Vivendi le cose potrebbero incancrenirsi in tribunale oppure sfociare in un’Opa da una parte o dall’altra (con la piccola differenza che Vivendi ha 2 miliardi di liquidità e Fininvest no). Oppure, come più logico, a vedere la questione con occhio freddo e distante, a Cologno Monzese (e in via Paleocapa, sede di Fininvest) dovrebbero prendere atto che il gruppo guidato da Vincent Bolloré è arrivato al 20% (per ora), avrà diritto a un posto nel cda e avrà sempre la minaccia dell’Opa da giocare. Questa brutalità dei numeri potrebbe mettere il Biscione con le spalle al muro e indurlo a più miti consigli circa la causa intentata.
Per molti osservatori il primo motivo dell’azione di forza (altrimenti detto attacco a freddo) operata da Vivendi tra lunedì 12 e mercoledì 14 dicembre sta tutto qui: chiudere una vicenda che in tribunale può costare carissima. Su Mediaset Premium, ricordiamolo, ci fu un accordo “strategico-industriale” per l’acquisto da parte del gruppo francese ad aprile, che avrebbe dovuto portare allo scambio di azioni alla fine di settembre. Poco dopo ci fu una clamorosa marcia indietro, giustificata dal fatto che il piano industriale per Premium era stato giudicato dai francesi irrealistico. Di lì seguì la richiesta di un risarcimento da 570 milioni di euro da parte di Mediaset. Il titolo crollò, da 3,9 a 2,2. Prezzo a cui Vivendi ha cominciato a rastrellare le azioni lunedì (il prezzo è poi salito a 3,62 euro). Dunque, ecco il secondo motivo: operazione finanziaria, con l’ex preda nel mirino. La quale, denunciando manipolazione del mercato, ha spedito l’avvocato Niccolo Ghedini a denunciare Vivendi. La procura di Milano ha aperto un’indagine contro ignoti.
È però naturale spingersi oltre l’attualità finanziaria e cercare di capire se ci sia un terzo motivo, cioè se nell’eventuale fusione-acquisizione ci sia un senso industriale. Da una parte ci sarebbe Mediaset, il cui mestiere è quello di produttore e distributore di contenuti per la tv in chiaro (le tre reti principali più quelle minori nate con il digitale terrestre, come Iris, La5, Tgcom24, Italia2 e Boing) e la pay-tv Premium, più una parte web piccola ma in ascesa. Oltre alla concessionaria Publitalia e all’attività di produzione televisiva. Dall’altra c’è Vivendi, che non è solo proprietaria di Canal + ma ha al suo interno Universal Music Group, Vivendi Village (varie aziende nei settori del digitale e spettacoli dal vivo), Dailymotion (piattaforma di contenuti, simile a Youtube e Vimeo), Gameloft (videogiochi), Havas (pubblicità e Pr) e Telecom Italia. Quest’ultima è l’unica società di reti rimasta, mentre tra il 2013 e il 2014 sono state dismesse nell’ordine Maroc Telecom, la francese Sfr e la brasiliana Gvt. In estrema sintesi, ci sarebbe un produttore di contenuti che in Italia ha soprattutto le reti di Telecom e dall’altra parte un broadcaster principalmente generalista, presente in Italia e in Spagna.
Nonostante le molte promesse di sinergie nelle fusioni tra Tlc e media, la storia è costellata da fallimenti. A partire da quelli di Telefonica-Endemol e di Aol-Time Warner
Quello dei matrimoni tra società di telecomunicazioni è un fenomeno in gran voga, rilanciato dall’operazione monstre di ATt&T su Time Warner, da 85,4 miliardi di dollari e attualmente in attesa di una decisione dell’autorità antitrust statunitense. Le Tlc mettono a disposizione le reti, i produttori i contenuti, il risultato teorico è che si alzano il numero degli abbonamenti, la redditività per abbonato e il tasso di fedeltà dei clienti delle reti.
Tuttavia, spiega Marco Gambaro, docente di Economia dei media alla Statale di Milano, «nonostante questo fenomeno si sia presentato molte volte negli ultimi due anni, ci sono stati dei fallimenti. Non è una strada sicura». I buchi nell’acqua più clamorosi di tali matrimoni, ricorda Daniele Doglio, docente di Economia dei media all’Università di Bologna, risalgono alla fine degli anni Novanta: quello tra Telefonica ed Endemol, nel 1998, e quello tra Aol eWarner, nel 1999. Oggi le cose sono cambiate, con la banda larga e condizioni sia tecnologiche che di mercato imparagonabili con 15 anni fa? «Vedremo, la novità AT&T e Time Warner potrebbe essere la riapertura di un ciclo. Ma a parte questo caso, le società di telecomunicazioni, a partire da British Telecom, stanno facendo acquisizioni di società piccole, che possano portare delle competenze, per proteggersi dagli Ott (over the top, ndr)». Lo scetticismo del docente dell’Alma Mater Studiorum parte dal profilo di Telecom. «Tarak Ben Ammar (finanziere amico sia di Bolloré che di Berlusconi e pontiere nell’operazione Premium, ndr) dice che è un matrimonio che si ha da fare, per le sinergie che si creerebbero. Ma c’è molta retorica. Quasi tutti ci hanno lasciato le piume in questi casi. Se una società di Tlc vuole investire deve partire da una tv generalista? Se fossi Bollorè comincerei da Itv Studios (gruppo Itv, ndr), che ha fatto un grande lavoro di rinnovamento». Il piano di cui ha parlato Vincent Bolloré è però di un polo di contenuti del Sud Europa, da intendere come la risposta europea a Netflix. «L’idea di questo polo dell’Europa del Sud mi lascia perplesso», dice Doglio. «Non saprei se ci sia un senso industriale – rimarca Gambaro -. Sento molti sostenere che si possa creare un Netflix europeo. Serve però chi sappia mettere in piedi una piattaforma e vendere i contenuti. Netflix è partita dalla distribuzione, poi è passata alla produzione. Questo ancora non si vede all’orizzonte».
«Per creare un Netflix europeo serve chi sappia mettere in piedi una piattaforma e vendere i contenuti. Netflix è partita dalla distribuzione, poi è passata alla produzione. Questo ancora non si vede all’orizzonte»
Resta da capire, se si arrivasse a una fusione, per chi sarebbero i vantaggi. Daniele Doglio non ha dubbi: «Ovviamente Mediaset avrebbe un vantaggio con Vivendi. C’è un problema di cultura aziendale, perché è un’azienda abituata a essere controllata da un padrone. Ma certamente avrebbe vantaggi». Invece, si chiede il docente dell’Università di Bologna, «dov’è la funzione strategica per il compratore? Mediaset è leader su produzioni che hanno un potenziale per la tv generalista e ha un appeal internazionale limitato, dato che il grosso delle produzioni che girano in Italia vengono dalla Spagna. Si dovrebbe esportare Buona Domenica o Del Debbio? O le fiction?». «Mediaset – aggiunge Gambaro – ha programmi nazionali e distribuisce film soprattutto italiani. Solo alcuni possono andare in Francia. In altri casi utilizza format internazionali, che in Francia sono già distribuiti da altri. I prodotti che hanno mercato internazionale già si vendono all’estero».
La vicenda, però, si fonde con quella della famiglia Berlusconi, da tempo alle prese con tensioni tra i figli sulle scelte proprietarie (evidenti soprattutto nel caso della vendita del Milan) e con la prospettiva di un passaggio generazionale da gestire. Potrebbe essere questa l’occasione per passare a un ruolo da finanziatori, piuttosto che da imprenditori, come da anni hanno fatto gli Agnelli? La nota di Fininvest e le parole di Berlusconi, dopo la riunione di mercoledì 14 dicembre ad Arcore, sembrano andare in direzione opposta: «Nessuno ridimensioni il nostro ruolo di imprenditori». Tuttavia c’è da avere almeno il beneficio del dubbio. «Se fossi Pier Silvio resterei come semplice azionista – dice Doglio -, magari con garanzie di tipo non solo economico, all’interno di un gruppo più grande di cui ho capito la prospettiva strategica. Il punto è: qual è la strategia?». «Non c’è un meglio – aggiunge Gambaro -. La mia posizione però è che più va avanti il mercato più un’azienda senza espansione internazionale diventa debole. Per decidere se sia meglio avere il controllo in una azienda medio-grande o una posizione da soci finanziari in una società molto più grande, il discrimine lo fa la prospettiva di fare profitti e rimanere indipendenti anche in futuro. Se questa non c’è conviene vendere finché un’azienda ha valore. Il resto dipende dal profilo delle persone e dalle loro ambizioni».
«Ovviamente Mediaset avrebbe un vantaggio nella fusione con Vivendi. Dov’è invece la funzione strategica per il compratore? Mediaset è leader su produzioni che hanno un potenziale per la tv generalista e ha un appeal internazionale limitato»
A favore di una fusione potrebbero giocare, in ogni caso, le fragilità strategiche sia di Telecom che di Mediaset. La prima è alle prese con una mancata esplosione della banda larga, per motivi di offerta (responsabilità delle stesse società di Tlc), di ritardi nella regolamentazione (soprattutto nelle aree svantaggiate del Paese) ma anche di una domanda inferiore ad altri Paesi occidentali, per una popolazione più anziana e con minore scolarità. La seconda è rimasta a lungo ancorata al suo modello originario. I conti dei primi nove mesi del 2016 segnano ricavi in aumento, sia nella più redditizia Spagna che in Italia, ma il risultato netto è peggiorato, da una perdita di 36 milioni nei primi tre trimestri del 2015 a una di 116 milioni. La posizione finanziaria netta si è aggravata di oltre 300 milioni, da 802 a 1.123 milioni di euro. Nella nota a commento dei risultati della trimestrale, Mediaset ha accusato Vivendi di aver chiesto di effettuare consistenti investimenti nel periodo di pre-accordo (interim management), che hanno pesato sui conti senza dare significativi riscontri di ricavi.
«Tutte e due le società si trovano ad avere la possibilità di integrarsi, ma è una possibilità più subita che voluta – commenta Gambaro -. È un peccato: se questa integrazione si fa con leadership francese, tutta la parte di servizi avanzati e terziario si sposterà a Parigi. Stiamo parlando di studi di ingegneria, software, avvocati, consulenti. Sono quei lavori sofisticati che formano l’indotto di società di questo tipo». Per il docente della Statale, tuttavia, pur di fronte a questa prospettiva, non avrebbe senso ora alzare barricate da parte della politica o formare cordate di capitani coraggiosi sul modello poco glorioso di Alitalia. «Se la politica avesse accompagnato la crescita del settore delle Tlc e dei media – continua – avremmo avuto due campioni anziché due prede. L’accompagnamento si fa con leggi, non per favorire o proteggere ma per promuovere la concorrenza. Se ci si limita a proteggere dalla concorrenza, le aziende si indeboliscono». Da Gentiloni e soprattutto dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, tuttavia, sono arrivati segnali ostili ai modi in cui sta avvenendo la scalata. «Intervenire ora organizzando cordate di campioni nazionali o ostacolando per via legislativa non è opportuno – commenta Gambaro -. È vero, in Francia le barriere le avrebbero alzate eccome. Loro però questo percorso lo hanno fatto. Alzare le barricate quando si è latitato è solo velleitarismo».