«Il mio braccio destro sono i cittadini romani» dice Virginia Raggi concludendo la conferenza stampa, ma chissà. Nell’ultimo sondaggio disponibile, data 18 novembre, quindi molto prima delle ultime traversie, sei romani su dieci già si dicevano delusi. E oggi quel che la città si chiede dopo l’addio di Paola Muraro e l’arresto di Raffaele Marra è ovvio: non è che pure stavolta, anche ora che ci sembrava di aver cambiato tutto con un voto plebiscitario e coraggioso, abbiamo preso una sòla?
I fatti in sé sono di poco conto. Il solito appartamento, la solita cortesia di un costruttore, cioè l’ordinaria prassi di un certo straccionismo romano che si vende per poco. Ma persino questo suscita irritazione: a Milano il sindaco Beppe Sala si autosospende per il colossale affare della Piastra Expo – un appalto da 149 milioni – e per una fornitura strapagata di seimila alberi a 4,3 milioni di euro, qui si parla di un appartamento Enasarco ai Prati Fiscali, 267mila euro. Spicci. Il consueto poraccismo capitolino, incapace di grandeur persino negli scandali, roba da Albertosordi più che da pirati degli appalti. Così come lo furono gli impicci su cui caddero i predecessori di Virginia: i pranzi scroccati da Marino, la parentopoli del club Alemanno con fratelli e fidanzate infilati ai piani bassi dell’Ama. L’azienda della spazzatura. Figuriamoci.
Il consueto poraccismo capitolino, incapace di grandeur persino negli scandali, roba da Albertosordi più che da pirati degli appalti. Così come lo furono gli impicci su cui caddero i predecessori di Virginia
«È solo uno dei 23mila dipendenti capitolini», dice la sindaca riferendosi a Marra, ma il romano medio sa che non è così. Marra è stato difeso a lungo, in uno strenuo braccio di ferro, e metà dei guai capitati all’amministrazione di Virginia sono legati alle barricate fatte per blindarne il ruolo: le dimissioni della prima fase, quelle della seconda, e i molti errori commessi cercando di sostituire una squadra che si sfaldava in un lento stillicidio, sempre puntando l’indice sul barbuto consigliori della Prima Cittadina.
Anche di questo tuttavia fregherebbe poco, a Roma, se non ci fosse il resto. E il resto è l’immoto corpaccione della città, dove persino gli adempimenti della routine natalizia – non diciamo le rivoluzioni – sono diventati montagne da scalare. Quella rovina d’albero in Piazza Venezia. Il bando per allestire piazza Navona emesso a inizio dicembre con scadenza 19. La gara pubblica per il concerto di Capodanno ufficializzata il 10 novembre e chiusa ieri con una sola adesione arrivata in extremis, quando già in Piazza Campitelli (assessorato alla Cultura) erano con le mani nei capelli: è mo’ che facciamo? Ecco, Marra o non Marra, la città va così. Non è un bel vedere.
La celebrata forza comunicativa Cinque Stelle mostra la corda davanti alla depressione di queste giornate. La giovane sindaca è palesemente molto stanca, e nervosa, costretta com’è stata a presentarsi in pubblico due volte in pochi giorni – la prima con un video, la seconda in carne e ossa in una conferenza stampa durata due minuti – per presentare le sue scuse. Sulla pagina Facebook degli “Innamorati di Virginia Raggi” è tutto un “Non mollare”, un “Dài Virginia”, e però c’è anche qualcuno che si chiede: “Cara Raggi, ci sei o ci fai?”. E in quella domanda, che è un classico di Roma quando Roma si stufa di qualcuno, si intravede il dubbio che da tempo circola in città: e se avessimo scelto una magari onestissima, magari perbenissimo, ma che non è in grado?
La gelida distanza che per tutta la giornata di ieri i vertici del Movimento hanno ostentato dei confronti della sindaca è la conferma che questo interrogativo non è solo dei romani. E tuttavia quel silenzio è forse l’unica risorsa su cui la Raggi potrebbe puntare per andare avanti: smetterla di aspettare l’imbeccata dal suo partito o da chiunque altro e appellarsi alla città che l’ha votata, cambiare stile, non negare la sua fragilità, concedersi una volta tanto alle domande dei giornalisti, ribellarsi alle indicazioni di staff che finora le hanno imposto una comunicazione unilaterale, quasi autistica, di ghiaccio.
Uscire dal ruolo di marionetta in cui l’hanno confinata e capire che è sindaco di Roma, che i tempi dell’«uno vale uno» sono finiti: lei vale di più perché è lei che siede in Campidoglio. E magari scegliersi un braccio destro come si deve, prima che la città le volti le spalle dicendo: «E vabbé, abbiamo preso un’altra sòla».