Vai avanti tu che a me viene da ridere. Sarebbe da catalogare come una farsa l’uscita alla chetichella delle banche del consorzio di garanzia per Mps, cioè Jp Morgan, Mediobanca e altri sei istituti (Santander, Bofa Merrill Lynch, Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank e Goldman Sachs), se non ci fossero di mezzo decine di migliaia di obbligazionisti che hanno di fronte quantomeno una sostanziosa perdita. Dopo le indiscrezioni di domenica 11, lunedì 12 dicembre le banche d’affari hanno comunicato che non sono più disponibili a prendere impegni per sottoscrivere l’inoptato dell’aumento di capitale della banca. Continueranno a promuovere l’aumento presso gli investitori, non si sa con quale credibilità a questo punto, dato che loro si sono sfilate dalla prima linea. Intanto l’incertezza, prima nemica dei mercati, continua a regnare sovrana, tra risposte non ancora arrivate dalla Bce sui tempi per l’aumento di capitale, decisioni da prendere da parte della Consob sulla conversione dei bond da parte degli investitori retail. E su molto altro, come la percentuale di rimborso degli obbligazionisti azzerati in caso di burden share e sul profilo di chi avrebbe diritto al rimborso.
La mossa di Jp Morgan e Mediobanca ricorda il passo indietro fatto all’ultimo minuto da Unicredit nel caso dell’aumento di capitale di Banca Popolare di Vicenza. All’epoca fu invocata come causa la mancata quotazione in Borsa. La mossa di Jp Morgan è eclatante perché la banca americana è stata una pedina cruciale in tutta la vicenda Mps e ha intrecciato un rapporto a doppio filo con il governo Renzi. Ricostruzioni consolidate hanno indicato in Jp Morgan il mandante della sostituzione dell’ex ad Fabrizio Viola da Mps, in favore dell’ex Jp Morgan e Bofa-Merrill Lynch (ma anche Intesa Sanpaolo) Marco Morelli, ritenuto più in linea con la strategia dell’investment bank, a partire dal piano industriale (messo a punto a fine ottobre). Il siluramento era poi avvenuto tramite comunicazione del ministro dell’Economia Padoan all’ex presidente di Mps Massimo Tononi, su richiesta di Renzi. Motivo della sostituzione era anche la necessità di presentarsi agli investitori senza un capo azienda che avesse già chiesto in passato aumenti di capitali (dimenticando che nel frattempo sotto Viola era arrivato il primo trimestre in utile da anni). Quale fosse il giudizio di Alessandro Penati, numero uno del fondo Atlante (impegnato nella gestione degli Nps di Mps), su Viola lo dice la nomina dello stesso Viola come ad di Banca di Vicenza, avvenuta ai primi di dicembre.
Jp Morgan ha anche contribuito con le sue uscite a legare l’esito del referendum costituzionale all’arrivo di investitori esteri: nella relazione all’assemblea convocata per il 24 novembre Mps mise nero su bianco i riscontri ottenuti dalle banche del consorzio di collocamento sulla sostanziale indisponibilità degli investitori a impegnarsi prima di conoscere l’esito del referendum. Ha soprattutto richiesto commissioni notevolissime, sia sul fronte dell’aumento di capitale che della partita delle cessione degli Npl (per la sola Jp Morgan Massimo Mucchetti calcolò 1,7 miliardi di euro, a fronte di un valore di borsa della banca di poco più di mezzo miliardo di euro). Un duro articolo di Ferruccio de Bortoli negli stessi giorni arrivava a chiedersi non fosse stata promessa un’esclusiva alla banca d’affari. Informazione su cui si è potuto riflettere quando, a fine ottobre, fu impedito alla cordata promossa da Corrado Passera (i nomi degli investitori della quale non furono mai resi noti) di svolgere una due diligence sui conti di Mps, rifiuto che portò al ritiro dell’offerta.
L’uscita alla chetichella delle banche del consorzio di garanzia per Mps, cioè Jp Morgan, Mediobanca e altri sei istituti è eclatante alla luce del ruolo cruciale avuto da Jp Morgan nella sostituzione dell’ad Viola con Marco Morelli e alla luce delle alte commissioni che riceverà sui vari fronti dell’operazione Mps
Che su questo passo indietro non ci siano praticamente titoli di giornali (e il Corriere della Sera di martedì 13 dicembre non ne fa neanche cenno) fa specie. Si potrebbe pensare che è inevitabile, dato che l’intervento dello Stato si profila come la soluzione più probabile alla crisi di Mps. Ma questo contrasta con il nuovo attivismo della banca senese. In attesa della risposta ufficiale della Bce alla proroga di 20 giorni per l’aumento di capitale (secondo la fuga di notizie denunciata ma mai smentita non si andrebbe oltre il 31 dicembre) e sulla scorta della velocità di formazione del governo Gentiloni, Morelli e il cda di Montepaschi hanno deciso di ritentare la carta del fondo sovrano del Qatar, la Qia. Le stime circolate negli scorsi mesi parlavano di un ingresso nel capitale con 1 o 1,5 miliardi di euro, sui 5 miliardi di aumento richiesto per coprire le perdite in bilancio dalla vendita di crediti deteriorati a un tasso stimato del 33 per cento rispetto al valore nominale. Il fondo del Qatar, come Jp Morgan e Mediobanca, era rimasto alla finestra dopo il No al referendum e le dimissioni di Matteo Renzi da premier.
La riforma costituzionale ovviamente non c’entrava. C’entravano le promesse del governo. Stando a quel che si legge sui giornali (a partire dal Sole 24 Ore) l’ormai ex esecutivo aveva aperto a possibili relazioni più ampie, non limitate alla sola Mps. Relazioni che sarebbe il caso di rendere note. Un osservatore dei mercati come Alessandro Milesi ha ipotizzato che una contropartita ci possa essere sul versante energetico (leggi Eni). Ma sono solo speculazioni. Anche osservatori ravvicinati come il capo delle strategie di investimento del fondo sovrano dell’Oman, l’italiano Fabio Scacciavillani, ha espresso a Night Tabloid di Rai Due (a titolo personale) le sue perplessità sul reale interesse dei qatarioti, derubricandolo a semplice rumor. Assieme al Qatar, altri fondi privati a cui i vertici proveranno a vendere la carta della continuità del governo Gentiloni rispetto al precedente (di fatto una fotocopia) sono quelli guidati da Paulson e Soros. I tempi però sono minimi, si parla di una chiusura dell’offerta non oltre questo giovedì. Mercoledì 14 ci sarà un cda di Mps per fare il punto su queste offerte.
Il servizio di Night Tabloid trasmesso su Rai Due l’8 dicembre 2016 sul caso Monte dei Paschi di Siena e i suoi misteri
https://www.youtube.com/embed/wlL5XyTpdfY/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-ITLa partita, però, come noto si è spostata su altri due fronti: la possibilità che una parte dell’aumento di capitale sia coperta, per 2,1 miliardi, dalla conversione volontaria di investitori retail detentori di obbligazioni subordinate con scadenza al 2018 (quelli che furono sottoscritti nel 2008 per finanziare lo sciagurato acquisto di Antonveneta). Qui il primo punto chiave è capire se questa conversione sarà possibile. Nella prima finestra fu applicato un profilo prudenziale: non permettere a chi non aveva allo scorso 30 settembre il profilo Mifid adeguato di convertire. Oggi la decisione sarebbe diversa perché, si argomenta, in caso di burden share e quindi di conversione forzosa delle obbligazioni subordinate in azioni, le condizioni sarebbero peggiori. La decisione spetta alla Consob, che però attende indicazioni più formalizzate da Mps. Un impasse.
Se anche la situazione si sbloccasse, sarebbe da capire come potrebbero 40mila piccoli risparmiatori decidere se convertire o meno i bond, non sapendo che cosa succederebbe se si andasse avanti con il burden sharing. Il governo avrebbe ottenuto dalla Bce il via libera a dare qualche forma di rimborso, ma in che misura è ancora oggetto di contrattazione. Si parla anche del livello di reddito come discriminante. Il caso dei rimborsi per Etruria e le altre tre popolari risolute ci dice che il percorso non è mai semplice. In questo quadro così confuso anche un commentatore non incendiario come Federico Fubini sul Corriere arriva a ipotizzare che queste misure siano nient’altro che passaggi formali per evitare future azioni di responsabilità. Sempre Milesi fa due conti in tasca ai possessori di bond e conclude che convertire non converrebbe, perché se non ci fosse nuova liquidità (e quindi ci fosse una semplice conversione di bond in azioni) il valore del titolo sarebbe destinato a scendere.
All’orizzonte si fa quindi sempre più concreta la strada dell’intervento statale. Ma anche in questo caso bisognerà attendere per avere schiarite. Intanto l’importo dell’intervento non è deciso, dipenderà dall’effettiva riuscita della conversione dei bond e dall’ingresso di qualche investitore istituzionale (Qatar o Soros). Potrebbe oscillare tra il miliardo e mezzo e i 3,5-4 miliardi. Inoltre bisognerà attendere il decreto omnibus sulle banche, in via di definizione e probabilmente varato appena il governo Gentiloni avrà ricevuto la fiducia del Parlamento. Solo allora si potrà avere conferma dell’entità del fondo per il salvataggio delle banche, che potrebbe valere 13-14 miliardi di euro. Come ricordava ieri a Focus economia di Radio 24 Alessandro Plateroti, tuttavia, non è detto che il fondo sia pubblico, potrebbe avere una presenza di banche private e Cdp, come nel caso del fondo Atlante, per non incorrere nell’accusa di aiuti di Stato.
Se anche la situazione sulla possibilità di convertire bond in azioni si sbloccasse, sarebbe da capire come potrebbero 40mila piccoli risparmiatori decidere se convertirli o meno, non sapendo che cosa succederebbe se si andasse avanti con il burden sharing. Il governo avrebbe ottenuto dalla Bce il via libera a dare qualche forma di rimborso, ma in che misura è ancora oggetto di contrattazione
Per non farci mancare nulla, c’è incertezza anche sul secondo fronte di Mps, quello che riguarda la dismissione degli Npl. In primo luogo perché è in corso una verifica della Bce che dovrà indicare se il conteggio dei crediti deteriorati e degli incagli (ora chiamati unlikely to pay) sia corretto o da rivedere al rialzo (attualmente la cifra è di 27,7 miliardi di euro di sofferenze). In secondo luogo perché sulla stampa si mette in dubbio la capacità, da parte del fondo Atlante, di fare fronte agli impegni economici sia sul versante senese che su quello delle banche venete.
Una delle poche notizie positive è la pubblicazione di un nuovo regolamento attuativo della direttiva sul bail-in (Brrd, relativo all’articolo 13 sull’intervento delle autorità pubbliche per il salvataggio di una banca). È stato pubblicato solo lo scorso 2 dicembre e sembra lasciare margini abbastanza ampi di manovra a governo e Banca d’Italia: «non è detto – ha spiegato Plateroti (minuto 44) – che l’intervento dello stato debba comportare l’azzeramento degli asset che sono stati dati ai risparmiatori». Sembrano anche da escludere interventi di bail-in (data la valenza sistemica di Mps) e quello dell’Esm. Siamo al 13 dicembre, la giorni di nebbia e lunghe notti. Entro la fine della settimana servono risposte, dall’Italia e dall’Europa, agli investitori e ai contribuenti.