Poveri anarchici, capri espiatori da Piazza Fontana a oggi

Dalla cacciata dalla Prima Internazionale alla defenestrazione di Giuseppe Pinelli, gli anarchici sono sempre stati bastonati e accusati di essere dietro a attentati di ogni sorta, quasi sempre ingiustamente

«Gli anarchici li han sempre bastonati», scriveva Francesco Guccini una notte del 1976. E ovviamente aveva ragione, perché il movimento anarchico fin dalla sua nascita, all’inizio dell’Ottocento, è sempre stato accusato — molto spesso senza alcuna prova e, alla fine, ingiustamente — di qualsiasi nefandezza, attentato o sabotaggio perpetrato a qualsivoglia manifestazione di un potere o di una autorità. Insomma, se fosse un personaggio della letteratura, il movimento anarchico somiglierebbe senz’altro a quell’Alonso Quijana che la pazzia trasforma in Don Chisciotte e che, nelle centinaia di rocambolesche pagine del capolavoro di Cervantes, le prende sempre da tutti.

Di più o meno tragici esempi in cui gli anarchici, nella loro storia, fanno la fine del topo se ne possono fare lunghi elenchi: da Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, assassinati dal governo americano il 23 agosto del 1927, a Giuseppe Pinelli, defenestrato dalla Questura di Milano la notte del 15 dicembre 1969, dalla cacciata degli anarchici da parte dei comunisti, decretata durante la prima Internazionale del 1872, fino ai volontari internazionali in Spagna che, durante una guerra civile tra rossi all’interno della guerra civile coi neri, vennero combattuti dai loro stessi alleati.

Sarà il loro essere liberi, disallineati e incomprensibili perfino ai propri alleati di sinistra, sarà per quella ostinata contraddittorietà che permette loro di marciare ridendo sotto una bandiera che mischia i colori dei comunisti a quelli dei fascisti, sta di fatto che gni volta che succede un casino il dito più lungo della mano del potere indica inderogabilmente loro, i soliti sospetti, i poveri anarchici libertari.

Per un caso, proprio oggi, 12 dicembre, anniversario dell’attentato di piazza Fontana e dell’ingiusto fermo del ferroviere Pinelli, leggendo sulle pagine de La Stampa ci imbattiamo in qualcosa che somiglia ancora una volta all’ombra di quel dito indice. Il fatto: nella notte tra sabato 10 e domenica 11 dicembre, a Rivarolo, Genova, nel cantiere di quella che dovrebbe diventare una caserma dei carabinieri, scoppia un incendio. Qualche ora dopo, lunedì 12 dicembre, l’incendio al cantiere diventa l’incipit di un articolo intitolato “Lettere esplosive e sabotaggi La piccola guerra anarchica”.

«Con ogni probabilità», si legge subito dopo le due righe di attacco, «guardando alle scritte lasciate sui muri, è un attentato di matrice anarchica. Parla già la dinamica: qualcuno è entrato nella sala dove si trovano i quadri elettrici, li ha cosparsi con liquido infiammabile e ha appiccato il fuoco». Con ogni probabilità. Guardando alle scritte sui muri. Parla già la dinamica.

L’articolo continua e mette in relazione l’attentato di Genova con un altro, avvenuto a Bologna una decina di giorni fa. L’obiettivo è simile, una caserma dei carabinieri, questa volta già costruita e funzionante; il momento è lo stesso, la notte; i primi presunti colpevoli anche: gli anarchici. Qualcuno lo hanno anche già arrestato. Fanno parte della cosiddetta “Federazione Anarchica Informale”, una rete la cui storia è quanto meno curiosa, il cui acronimo è ancora più curiosamente identico a quello ufficiale della Federazione Anarchia Italiana e la cui nascita, e poi la finiamo con le curiosità, è stata festeggiata più dagli inquirenti che dai movimenti anarchici, che l’hanno subito e molto formalmente disconosciuta completamente.

La sigla venne fuori per la prima volta sotto Natale, nel 2003. Era il 27 dicembre, e a casa di Prodi, a Bologna, passato il Natale si aprivano i pacchi arrivati negli ultimi giorni. Uno di quelli, indirizzato alla moglie e contenente una copia del Piacere di D’Annunzio, appena aperto fece una gran fiammata. Non si fece male nessuno, ma subito i giornali attribuirono l’attentato a una sigla anarchica il FAI.

La perizia giornalistica del Corriere non si spinse fino all’ardua missione di dirimere il dubbio su se si trattasse della Federazione Anarchica Italiana o di quella Informale. Ma il giorno dopo, la Federazione Anarchica Italiana, che di informale non ha nulla e non ha mai voluto avere nulla, diffuse un comunicato diretto e conciso in cui disconosceva la matrice anarchica dei loro indesiderati colleghi informali.

«In riferimento alla comparsa di una fantomatica “FAI (Federazione Anarchica Informale)”», si legge nel comunicato, la FAI quella vera «denuncia la natura grave e infamante dell’attribuire questo tipo di fatto ad una sigla che allude comunque a quella della FAI – Federazione Anarchica Italiana» e «rivendica il portato storico dell’organizzazione anarchica come si è configurata dal Congresso di S. Imier del 1872 fino ai deliberati costitutivi della UAI del 1920 e della FAI del 1945: ORGANIZZAZIONE CHE NON E’ AFFATTO INFORMALE, perché fa della chiarezza e della collegialità dei mandati il suo atto di garanzia di un metodo libertario ed egualitario di prendere le decisioni».

Ma è nei due paragrafi successivi che il comunicato anarchico dice le cose più interessanti. Prima ribadendo «la propria condanna di bombe, pacchi bomba e ordigni, che possono colpire indiscriminatamente, e comunque paiono più che altro funzionali alle logiche della provocazione e della criminalizzazione mediatica del dissenso». E poi sottolineando che «gli strumenti di lotta delle anarchiche e degli anarchici federati sono dispiegati nelle piazze, nel sociale, nel sindacalismo autogestionario e di base, nei movimenti, nelle decine di città in cui gestiamo circoli pubblici, nella aperta opposizione alle logiche del dominio e dei terrorismi di Stato, per la costruzione di una società di liberi ed eguali».

Gli anarchici non soltanto non mettono le bombe perché non credono che il mondo si cambi con la violenza o con metodi “funzionali alle logiche della provocazione e della criminalizzazione mediatica del dissenso”, ma, soprattutto, gli anarchici non sono informali, non nascondono la faccia sotto un passamontagna, perché su quella faccia c’è una risata in faccia al potere, una risata che l’anarchico non nasconde, anzi, proprio il contrario.

«Non scampa, fra chi veste da parata, chi veste una risata», continuavano quei versi scritti da Guccini nel 1976. «Sarà una risata che vi seppellirà», dicevano nell’Ottocento gli anarchici, che quella risata la vestivano al momento dell’arresto per irridere la polizia e non dare al potere nemmeno il sollievo di vederli martirizzati. Invece la Federazione Anarchica Informale non ride per niente e non è l’unica cosa che la fa differire da quasi qualsiasi espressione attivistica dell’anarchismo militante. Eppure è innegabile, la sua fumosa esistenza è molto comoda. Quasi come quel celebre tasto F4 della tastiera degli sceneggiatori di Boris, un tasto da cliccare ogniqualvolta chi scrive la Storia viene preso dalla vertigine della pagina bianca e ha bisogno di oliare la propria narrazione.

L’unica vera colpa imputabile al movimento anarchico è anche l’unica grandissima forza dell’anarchia. È l’impossibilità di bloccarla in paletti, in regole o dogmi. Parafrasando uno dei più usurati incipit della storia della letteratura di ogni tempo, quello che il buon Lev Tolstoy — che pagò il proprio anarchismo cristiano con una scomunica da parte della chiesa Ortodossa— scrisse per cominciare Anna Karenina, potremmo dire che “Tutti i comunisti si somigliano fra loro, e che ogni anarchico è anarchico a modo suo”. O, come disse Georges Brassens durante una grandiosa conversazione con Leo Ferré e Jacques Brel: «È difficile spiegare l’anarchia… anche gli stessi anarchici fanno fatica. Tutti hanno una idea dell’anarchia personale. Ed è proprio questo che è esaltante dell’anarchia: che non esiste un dogma. È una morale, una maniera di interpretare la vita…».

Una morale e una maniera di interpretare la vita che, oggi, a 47 anni dall’ingiusta colpevolizzaizone di Giuseppe Pinelli e, insieme a lui, dell’intero movimento anarchico, continua ad essere il prevedibile capro espiatorio da indicare quando succede qualcosa che non va. Perché, alla fine, è sempre colpa di Don Chisciotte.

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