In Baviera c’è un nuovo idolo della folla. Così titolava, nel 1922, il New York Times stendendo un ritratto di un carismatico capetto tedesco locale, dalle grandi ambizioni e dal seguito crescente. Niente di strano: era il giovane Adolf Hitler. “Avrebbe poteri straordinari nel ricondurre le folle alla sua volontà”, sottotitolava, e aveva anche un suo piccolo esercito personale, “con camicie brune, che obbediscono ai suoi ordini senza nemmeno parlare”. Reazionario, carismatico, anti-comunista e anti-semita. Ma è poi vero? Si chiedeva lo stesso articolista.
La risposta – e potrebbe sorprendere il lettore di oggi – era no. Anzi. Quello che Hitler diceva era tutta fuffa. “Il suo anti-semitismo non è così violento e genuino come appare”, scriveva, candidandosi al premio per la topica del secolo. Ma il povero giornalista non inventava nulla. Riferiva l’opinione di un sedicente e anonimo esperto di politica tedesco (chissà poi se era vero), secondo cui Hitler “usava la propaganda anti-semita come amo per fare abboccare le masse di seguaci e mantenerli emozionati, entusiasti e pronti per il momento in cui la sua organizzazione sarà completata e abbastanza potente per essere impiegata in modo efficace per scopi politici”. Quindi l’anti-semitismo, come tutte le promesse dei politici, era un falso. Hitler, si può dire, era un furbone ma non un cattivo.
Rilette oggi, queste righe colpiscono molto. “Non puoi aspettarti che le masse capiscano o apprezzino i tuoi veri obiettivi, che sono raffinati. Bisogna nutrirle invece con bocconi grassi e idee basse, come l’anti-semitismo. Sarebbe sbagliato, dal punto di vista politico, dire loro la verità su dove li state davvero conducendo”, ossia alla distruzione quasi totale. Molto bene. Il raffinato analista politico citato dal New York Times putroppo è rimasto anonimo e ha scampato lo scherno dei secoli a venire. Mai analisi fu più sbagliata, mai previsione meno azzeccata. Ma c’è un ma.
Dieci anni dopo i giornali americani (sì, americani) sembravano impazziti per il Führer. Il magazine Time lo sceglie come Uomo dell’Anno 1938 (un po’ come se oggi scegliesse il premier filippino Duterte?). Altri si sdilinquivano, si abbandonavano a lodi e vezzeggi. Il Christian Science Monitor raccontava, dopo un reportage, come la Germania fosse tornata all’ordine, come “i treni arrivassero puntuali”, prendendo spunto dalla retorica fascista, e come non ci fosse nulla di strano, tutto sommato. Era una dittatura come un’altra, insomma, niente di che.
Come è possibile, si chiedono oggi alcuni giornalisti, che la stampa Usa vedesse e ritraesse il regime di Hitler in modo positivo? Perché perdonavano e/o razionalizzavano l’anti-semitismo di Hitler? Il loro timore, peraltro esplicito, è che la cosa possa ripetersi anche oggi con – guarda un po’ – Donald Trump. Del resto il paragone è semplice: li accomuna una retorica aggressiva e razzista e il fatto che, in fondo, nessuno creda davvero che pensino quello che dicono. C’è da preoccuparsi?
Chi può dirlo. Si può notare che, in realtà, qualche giornalista americano preoccupato per le parole e soprattutto per le azioni di Hitler c’è stato: ad esempio Edgar Mowrer, corrispondente dalla Germania per il Chicago Daily News. Nei suoi pezzi, allarmati, avvertiva di continuo del pericolo nazista. Poi va aggiunto che sì, Hitler era anti-semita (come negarlo?) ma anche molti americani all’epoca lo erano. Si trattava di un tema corrente, poco apprezzato in generale ma, di sicuro, non certo considerato una bestemmia come è giustamente oggi. In più i giornali americani erano molto scettici sulle notizie che arrivavano dall’Europa: durante la Prima Guerra Mondiale avevano pubblicato resoconti crudissimi su violenze incredibili (tedeschi che prendevano a baionettate i bambini francesi) che poi si rivelarono delle bufale: meglio andarci piano. Hitler, poi, era un comodo baluardo – più per Francia e Inghilterra, in realtà – in difesa delle nazioni liberali di fronte al pericolo comunista. Infine, il giudizio storico è più facile a posteriori. Che Hitler fosse un dittatore folle e sanguinario lo si è scoperto fin troppo bene negli anni successivi. Prima era difficile da prevedere. Era più semplice pensare che tutto fosse più o meno normale, che tutto andasse più o meno bene.
E allora, quale lezione trarre da tutto questo? La prima è che sì, vissuta giorno dopo giorno, con un processo continuo di mitridatizzazione, anche la situazione tedesca poteva apparire normale, almeno a chi viveva in quei tempi. Questo obbliga tutti a stare in guardia. D’altro canto, le istituzioni sono diverse: quella americana è senza dubbio più solida e con più contrappesi (i Repubblicani hanno una maggioranza quasi assoluta, ma non sono uniti) rispetto alla Germania del dopo-Weimar. E questo invece può indurre ottimismo.
Ma il problema vero è che, paragoni storici più o meno azzardati a parte, i giornali dovrebbero essere sempre sul chi vive. Non tanto perché siano chiamati, anzi eletti, a una battaglia in difesa della democrazia sempre e comunque. Quanto invece perché raccontare le cose come stanno, senza sorrisi né simpatie, senza restare ipnotizzati/soggiogati dal politico fascinoso o dal potente con i soldi, dovrebbe essere il loro lavoro.