«Auguri alle famiglie italiane. Che si festeggi, ma ponendo attenzione alla lotta agli sprechi alimentari come tema di cittadinanza», ha detto il ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, Maurizio Martina.
Avantieri, durante l’udienza pre natalizia, quella degli auguri e delle benedizioni, Papa Francesco ha annunciato che la sobrietà sarà uno dei dodici criteri guida della riforma della curia romana, il cui scopo sarà conformare l’amministrazione vaticana tanto “alla Buona Novella”, quanto “ai segni del nostro tempo”.
Tra i regali che Il Post consiglia ai propri lettori per queste feste ci sono, tra gli altri, un pacco di sale grosso quello buono, un misuratore di decibel, gli asciugamani di una catena di alberghi low cost e, unica concessione alla sfrenatezza, un simulatore di sesso orale. Il Corriere della Sera, più pragmaticamente, invita i genitori italiani a impacchettare un piano di risparmio per i propri figli “il primo mattoncino per finanziare un progetto: l’università, la casa o, perché no, anche una stampella per la pensione”.
Allora, l’albero di Natale brutto, spoglio e anaffettivo che il comune di Roma ha piazzato, come da tradizione, al centro di Piazza Venezia, non è colpa di Virginia Raggi e della sua giunta: è Zeitgeist puro e semplice. Festa rima con mesta: i Marlene Kuntz lo scrissero in un disco che uscì un mese dopo il suicidio di Kurt Cobain, nel 1994, quando la lotta alla società dei consumi era grunge e aveva ragioni esistenziali e non politiche o civiche.
Oggi la festa non è più svago poiché lo svago non è più abolizione del controllo, estasi, sfrenatezza. La festa è un’occasione di redenzione, persino di sensibilizzazione e non interrompe la quotidianità, ma ne riprende i tratti
Oggi è diverso: la festa non è più svago poiché lo svago non è più abolizione del controllo, estasi, sfrenatezza. La festa è un’occasione di redenzione, persino di sensibilizzazione e non interrompe la quotidianità, ma ne riprende i tratti.
Così, l’austerity che ha preso a regolare le nostre vite diventa anche il protocollo dei festeggiamenti. I ragazzi scendono in piazza per chiedere una pensione e i loro genitori, sotto l’albero di Natale, li aiutano a piantare il primo seme della previdenza sociale. A imbandire la tavola è l’impegno contro gli sprechi alimentari (al tema, qualche mese fa, a Bari, è stata dedicata una mostra artistica) e non la celebrazione dell’opulenza. Quell’opulenza nella quale ci fingevamo, per una settimana all’anno, ricchi e padroni e alla quale volevamo abbandonarci, pur sapendola illusoria, evanescente, finta e della quale, infine, volevamo servirci per festeggiare, all’infinito, la sbronza convinzione che nessuna guerra ci toglierà mai più il pane e che l’unica fame che sentiremo, da occidentali, sarà quella di sapere, conoscere, provare, rischiare, quella di Dave Eggers e del suo La fame che abbiamo (libro meraviglioso del 2005). L’abbondanza che per l’uomo primitivo era un auspicio e una divinità da propiziarsi, per gli stoici qualcosa da cui trattenersi impiegando il kathèkon (l’azione giusta, temperata dall’equilibrio tra uomo e natura), per il mondo post bellico un fanatismo integralista e fatale, per il capitalismo un’ambizione d’uguaglianza, per noi bulimia e sperpero.“Se non mangi, non puoi morire”, dice Tognazzi a Michel Piccoli ne La Grande abbuffata (1973), il capolavoro di Marco Ferreri (quattro amici decidono di suicidarsi mangiando fino a scoppiare, letteralmente) che a Cannes, dove il film fu presentato, provocò sdegno e rigetto.
“Se non mangi, non puoi morire”, dice Tognazzi a Michel Piccoli ne La Grande abbuffata, Il nostro mantra, invece, sembra essere diventato “se mangi, puoi morire”
Il nostro mantra, invece, sembra essere diventato “se mangi, puoi morire”, impegnati come siamo a trovare cause di mortalità in alimenti, diete, abitudini, piaceri, svaghi. E poiché l’ordinario invade lo straordinario, riducendolo e ossidandolo, ecco che anche a Natale perdurano le nostre lotte ambientaliste, erudiste, vegane, anti-sistema, anti-casta, anti-finanza.
Non c’è tregua: restiamo vigili sulla soglia dell’apollineo, pronti a sedare il dionisiaco.
Eppure, l’eccesso, l’ebbrezza, il teatro, l’uscire fuori di sé, la tracotanza di un regalo che non possiamo permetterci e di un vestito troppo corto e di un menù troppo lungo, ci rendono vivi e scoperchiano la possibilità di rendere produttiva e creativa la controcondotta e portarla ben oltre un atto di disobbedienza puramente negativo, come auspicava Foucault quando pure sosteneva che “là dove c’è potere c’è resistenza”.
“Zapoj è una cosa seria, non la sbronza di una sera che, come da noi, lascia soltanto un cerchio alla testa il giorno dopo. Zapoj vuol dire restare ubriachi per parecchi giorni senza smaltire la sbornia, vagare da un posto all’altro, salire sui treni che non si sa dove vanno, dimenticare tutto ciò che si è detto o fatto”, scrive Carrere nel suo Limonov. E ci fa sentire che, ogni tanto, dobbiamo voler bene alla nostra carne e ai nostri sensi tanto da annebbiarli. Il ministro Martina che, invece, pretende di farci sedere al cenone di Natale con addosso l’attenzione al civismo, ci chiede di prenderci cura di principi, del futuro, ma di nulla che vediamo, di nulla che ci sia fratello o fraterno e, in definitiva, nulla che abbia a che fare in modo tangibile con di noi stessi, qui e ora.
“A Wall Street è tutto esposto, è tutto in vendita: stoppa, mucche… eppure non ci sono stoppa e mucche, ci sono solo le parole”, dice uno dei fratelli Lehman nel dramma a loro dedicato da Stefano Massini (ultima regia teatrale di Luca Ronconi, riproposto la scorsa settimana al teatro Argentina di Roma). L’evanescenza del capitalismo più sfrenato assomiglia all’evanescenza di principi ai quali stiamo immolando ogni piacere, ogni gioco, ogni festa.
Ragazzi che, stasera, riceverete un piano pensionistico: bruciatelo. Varrà più di tutte le proteste di piazza che i vecchi soloni sessantottini vi rimproverano di non fare
Tra noi e gli anni Novanta, l’ultimo decennio della spensieratezza e dell’etica sempre sacrificata all’estetica (un lusso che oggi si concede solo qualche archistar: persino la moda non lo fa più), ci sono stati lo scandalo Lehman e i no global. Lo sperpero, allora, non era un reato contro il futuro, ma una appropriazione del presente, non di rado discutibile, ma comunque sempre legittima perché esclusa dall’etica. L’attuale, insistente richiamo degli anni Novanta, così evidente nella moda hipster e post hipster di adolescenti anagrafici e aspirazionali, non è, però, un tentativo di restaurarne l’irresponsabilità. Non è nostalgia per quel poter essere sempre e solo figli. Si tratta, semplicemente, di una magnificazione del riciclo.
Non rivogliamo il Natale di Parenti Serpenti (il film di Mario Monicelli del 1992), con le cognate che si regalano tappi in argento a forma di delfino solo per gareggiare in ricchezza (simulata): vogliamo rivederlo per esorcizzarlo. E per vederci cambiati, migliorati, meno meschini, più essenziali, più autentici, meno ipocriti, più generosi (dopotutto, alla fine di quel film, i figli ammazzano i vecchi genitori regalando loro una stufa a gas, ben sapendo che farà saltare in aria la casa).
Ma c’è un altro film di Natale che, forse, dovremmo rivedere per scavare più a fondo in questa nostra austerità felice: Fanny e Alexander di Ingmar Bergman. La storia di una famiglia esagerata, rumorosa, edonista, dove a seguito di un lutto, entra, per sposare la vedova sola con due bambini piccoli, un pastore protestante, che converte tutti al rigore.
Niente più bambole. Niente burro. Niente fantasia. Niente favole. Niente colori. Solo preghiere e pensieri puri. A tutti comincia a scolorirsi il viso, spegnersi lo sguardo, incattivirsi il pensiero, fino a che qualcuno non brucia, vivo, il pastore. Ragazzi che, stasera, riceverete un piano pensionistico: bruciatelo. Varrà più di tutte le proteste di piazza che i vecchi soloni sessantottini vi rimproverano di non fare