«Gli artisti italiani la fanno sempre complicata. Li chiami con venti giorni di anticipo e stanno lì a mettere le mani avanti, non hanno tempo, bisogna sentire i manager, hanno paura di essere giudicati. Con gli stranieri è tutto molto più easy. Per questo quando mi dicono che faccio solo collaborazioni internazionali, quasi a farmi passare per uno snob, mi incazzo. Perché io ci ho pure provato più volte, ma qui è davvero impossibile…»
Zucchero parla schietto. Zucchero canta schietto, del resto, è quello che durante tutta l’estate ci ha accompagnato con un brano easy, per dirla con parole sue, in cui diceva a una donna che aveva ben tredici buone ragioni per preferirle una birra e un panino al salame, mica una tartina al caviale, ma la sua è una schiettezza che lo porta poi a cantare un brano poetico, chiamiamo le cose con le parole giuste, come Voci, fatto che rende la schiettezza ancora più schietta.
Parla chiaro, come usa nella sua terra natia e in quella dove ha deciso di mettere le radici, la Toscana. E parla schietto riguardo a quel che in Italia si può e non si può fare in musica.
Lo fa in occasione dell’uscita del repackeging di Black cat, il suo fortunato ultimo album di studio. Un lavoro importante che lo ha visto collaborare con una pletora di produttori internazionali, su tutti il gigantesco T-Bone Burnett, qui in buona compagnia di Don Was e di Brendan O’Brien, e di strumentisti di primo livello, anche qui ci viene da fare il nome di Mark Knopfler, con l’ausilio dei soliti amici di sempre, quelli che non fanno fatica a rispondere a un invito, che non tirano in mezzo i manager o l’agenda, Bono degli U2 e Elvis Costello, incaricati di scrivere la versione in inglese di due brani della tracklist.
La faccenda delle collaborazioni salta fuori durante una lunga chiacchierata per un motivo molto semplice, Zucchero ha tirato fuori un lavoro importante, poi si è fatto undici date, dico undici, all’Arena di Verona, festeggiando così come si deve la sua carriera trentennale, ed è partito per un lungo tour che, passate le feste natalizie, riprenderà assai lontano dall’Italia.
Zucchero diceva a una donna che aveva ben tredici buone ragioni per preferirle una birra e un panino al salame, mica una tartina al caviale
«Quest’anno ho deciso di passare le feste con tutta la famiglia, cosa che non sempre mi riesce, per problemi di organizzazione. Poi chiuderò casa e partirò, perché ho da suonare lontano. Andremo in Canada e Stati Uniti d’America, per dire, dove attraverseremo quelle terre a bordo di un tour bus, una situazione molto rock’n’roll».
Tutti noi abbiamo visto e amato Almost famous, l’idea del tour bus è in effetti davvero incredibilmente evocativa.
In realtà è una necessità economica, essenzialmente, perché così si tagliano sensibilmente i costi, ma è anche vero che si crea un clima differente. E poi, ci pensi, la possibilità di fermarsi in mezzo a quei paesaggi incredibili, magari anche solo per una mezz’ora. Impossibile tornare da un viaggio così senza aver preso appunti, senza aver immagazzinato sensazioni e immagini che finiranno nel prossimo lavoro
Del resto Jackson Browne, tanto per fare un nome, ci ha inciso addirittura un album, durante i viaggio di un suo storico tour, Running on empty, proprio nel tentativo di raccontare quella strana condizione di chi si trova a muoversi in lungo e in largo in posti che magari neanche conosce, ma non da turista, bensì da artista.
Io quando giro, e mi trovo spesso a girare, perché nella mia carriera ho suonato davvero ovunque, dalle grandi arene ai locali piccoli, cerco sempre di ascoltare più musica possibile, specie quando mi capita di andare in posti come gli States, dove c’è la musica che più mi ha influenzato. Cerco di carpire suoni, influenze, ma anche di conoscere musicisti. Mi capita, magari, di sentire un ragazzino bravissimo che suona la chitarra come un Dio e ha solo quattordici anni, è successo nel mio ultimo viaggio americano, e ovviamente me ne innamoro, sono subito portato a invitarlo in tour con me. Poi magari non succede, perché ci sono problemi organizzativi un po’ complessi da gestire, ma sicuramente si creano connessioni che, magari, in futuro diventeranno altro.
E torniamo al discorso iniziale, la facilità con cui si lavora con artisti stranieri rispetto a quelli di casa nostra.
Ti faccio un esempio, anche abbastanza noto. Ho conosciuto Eric Claplton una vita fa. È successo per caso, perché Lori Del Santo, che all’epoca stava con lui, era una mia fan. Un giorno la incontro per caso qui a Milano e mi invita a cena, la sera, dicendo che c’era anche Eric. Vado alla cena, anche piuttosto emozionato, si parla, si mangia, si beve e, alla fine, magari un po’ favorito da quanto si era bevuto, dal clima che si era creato, gli dico che mi piacerebbe averlo nel mio album. Lui si dice entusiasta dell’idea. Così gli faccio avere il brano in cui lo volevo. La cosa sembra finire lì, perché non ho più sue risposte. Pazienza, mi dico, avrà detto sì tanto per non offendermi. Invece, mentre sono a Memphis per le registrazioni dell’album arriva una sua telefonata, in cui mi dice di passare da New York che avrebbe fatto la sua parte. Tutto easy, senza problemi
Easy anche se reso possibile da una questione di chimica, certamente, ma anche di credibilità. Non gli fosse piaciuto quel che facevi difficilmente sarebbe mai successo qualcosa.
Certo, quello è ovvio. Però considera anche che noi tendiamo a farci un sacco di problemi, in generale. Consideriamo sempre poco quel che facciamo noi, e sovrastimiamo il lavoro degli altri, finendo per avere come paura di proporci. Anche i grandi nomi hanno dei limiti, e spesso sono grandi in virtù di quel che hanno fatto in passato, dovremmo credere più in quelle che sono le nostre capacità, e soprattutto smetterla di farci tutte queste menate.
Attitudine, questa, che ti ha portato a collaborare davvero con un sacco di artisti, come recentemente ti è successo in Giappone.
Beh, questa è un po’ la riprova che essere aperti paga, e che credere in se stessi non significa necessariamente sentirsi già arrivati. Per Black cat ho collaborato con Tomoyasu Hotei, un artista giapponese che mi hanno proposto. All’inizio, lo confesso, ho pensato a una marchetta, un modo per provare a entrare in un mercato che fino a oggi mi ha praticamente quasi ignorato, salvo per Zu and CO, che si è mosso molto bene. Quando invece ho sentito cosa era in grado di fare mi sono ricreduto, e ho accettato di buon grado. Ora, per la promozione in Giappone di Black cat, Hotei mi ha chiamato a suonare con lui, ricambiando l’ospitalità. Risultato, la gente mi fermava per strada perché mi riconosceva con il cantante italiano suo ospite. E ora stiamo lavorando a date da fare in Giappone. Dove, per altro, c’è un clima perfetto per chi fa musica. La gente è attentissima, canta le canzoni anche se non conosce una parola di italiano, si gode ogni secondo della tua esibizione senza distrarsi
Diverso è, immagino, quando vai a portare la tua musica, che deriva decisamente più dagli stati del Sud degli Stati Uniti, a Nashville o New Orleans.
Lì è una faccenda incredibile. Perché vai a rubare a casa dei ladri. Sei lì, dove la musica che ti ha ispirato è nata, e dove praticamente la suonano tutti, in ogni angolo di strada, e hai di fronte un pubblico che volendo potrebbe farti a pezzi. Quando riesci a portare a casa la serata, e fortunatamente mi è sempre andata così, ne esci decisamente rinforzato. Perché sai che sconti, lì, non ne fanno. Ma non hanno neanche pregiudizi. Arriva un italiano che propone musica suonata col dobro, con la national guitar, con quelle sonorità lì? Bene, andiamo ad ascoltarlo e poi vediamo se ci sa fare o meno
Siamo sempre lì, la musica non ha filtri. Non dovrebbe averne.
Io continuo a fare musica sempre per lo stesso motivo, da quando ho iniziato. Il fatto che mi capiti di farlo in giro per il mondo non cambia certo l’attitudine. Per questo, è successo oggi che stiamo chiacchierando, posso starmene due settimane in Giappone, tornare di notte e l’indomani affrontare interviste senza viverlo come un peso. Perché suonare, cantare, scrivere canzoni, anche parlare di musica, è la passione che mi muove da sempre. Nella vita, lo so, mi è capitato di essere al posto giusto al momento giusto un sacco di volte, come quella volta che ho chiesto a Pavarotti di cantare in Miserere. Ci ho provato, perché avevo questa canzone che avrebbe potuto cantare solo lui, e quando l’ho chiamato a casa, perché all’epoca ci si parlava ancora coi telefoni fissi, mi ha risposto sua figlia che era una mia fan, permettendo sicuramente che quantomeno l’incontro prendesse una piega positiva. Poi, è storia vecchia, quando sono andato da lui, il giorno dopo, e ci siamo trovati faccia a faccia, ho capito che dovevo tentare il tutto per tutto. Dopo una giornata passata a chiacchierare, senza mai sfiorare l’argomento Miserere, e giocare a carte, ho tirato fuori una cassettina col brano, l’abbiamo sentita e gli ho chiesto di cantarla. Lui se ne è detto entusiasta, ma ha detto che aveva troppi impegni. A quel punto ho preso il nastro e l’ho buttato nel camino, con gesto da melodramma napoletano. Ne aevo con me altre cinque o sei copie, ma il maestro, uomo d’altri tempi, ha pensato fosse l’unica. Ha detto che ero un pazzo, che non dovevo buttare via una così bella canzone e alla fine ha accettato. A volte tocca arrischiare, perché se si sta fermi le cose non succedono.