Aiuto! Con Trump presidente è in pericolo la vittoria (già quasi sicura) contro l’Isis

Tanti gli interrogativi intorno alla posizione di The Donald in Siria. IL suo arrivo poterebbe turbare il delicato equilibrio che ci ha portato a un passo dalla vittoria contro lo Stato Islamico

L’Isis vicino al colpo di grazia, ma l’arrivo di Trump potrebbe congelare tutto

Manca una settimana all’inizio dell’era “Trump presidente Usa”. La prima fondamentale questione, dopo le dichiarazioni e le polemiche della campagna elettorale, su cui sarà valutato il nuovo inquilino della Casa Bianca sarà il rapporto con Mosca. E il primo importante banco di prova per quella che potrebbe essere una storica svolta nei rapporti col Cremlino sarà il Medio Oriente. Qui infatti la guerra allo Stato Islamico si intreccia con i giochi di potere russi e americani nell’area, e ancor di più con quelli dei rispettivi alleati.

Il neo-presidente non potrà intervenire col pugno di ferro, come ha promesso, contro l’Isis senza porsi il problema di chi andrà a riempire il vuoto che la scomparsa del Califfato è destinata a lasciare. Né può inaugurare una stretta collaborazione con Putin in Siria contro il Califfato senza tenere in considerazione la complessità dello scenario – in cui è coinvolto anche l’Iran, contro cui Trump vuole indurire la posizione Usa – e le posizioni dei suoi alleati arabi. Dovrà infine affrontare le problematiche dei rapporti con la Turchia e della questione curda. Ma che situazione di partenza trova dunque Donald Trump?

Secondo diversi analisti il 2017, salvo imprevisti, dovrebbe essere l’anno della caduta dell’entità statale “Stato Islamico” (il che non significa che l’Isis non resterà operativo come pericolosa sigla terroristica). Dopo anni di incertezze prima e di preparativi poi, a fine 2016 sono infatti cominciate le operazioni per la conquista delle capitali del Califfato, Mosul in Iraq e Raqqa in Siria. Perdute quelle, dello Stato Islamico resterebbero solamente centri minori e territori prevalentemente desertici.

A Mosul la situazione è già in una fase piuttosto avanzata. Secondo il generale Talib Shaghati, capo dell’anti-terrorismo iracheno, le operazioni per riconquistare la città potrebbero essere complete in tre mesi o meno. L’offensiva era cominciata il 16 ottobre 2016 e in breve tempo aveva portato le forze irachene, affiancate dai peshmerga curdi e dalle milizie popolari (prevalentemente sciite), e supportate da Usa, Francia e altri Paesi della coalizione internazionale anti-Isis, a circondare Mosul.

La resistenza feroce dell’Isis, casa per casa, aveva rallentato poi l’avanzata in città. Trappole esplosive, mine, attacchi kamikaze con veicoli riempiti di tritolo, cecchini e sortite in stile guerriglia hanno causato numerose perdite alle forze assedianti. Per reagire a questo stallo, il 29 dicembre è iniziata la “seconda fase” dell’offensiva, che ha portato alla caduta delle ultime sacche nella periferia occidentale di Mosul e di alcuni distretti della città. Ora manca la spallata finale, quella che – se tutto andrà secondo i piani – permetterà a Trump di intestarsi una simbolica vittoria. A Mosul, infatti, nell’estate 2014 il Califfo al Baghdadi aveva proclamato la nascita dello Stato Islamico. Qui il nuovo presidente americano potrebbe annunciare la sua morte.

Ma perché di morte si possa parlare, comunque entro certi limiti, va decapitata anche l’altra testa dell’Isis, la sua capitale siriana. A Raqqa le operazioni sono però ancora in una fase preliminare. Gli Stati Uniti hanno investito le SDF a guida curda del compito di conquistare la città, ritenendo l’alternativa presentata da Turchia e ribelli filo-turchi non affidabile. Questo ha creato un lungo stallo, perché da un lato i curdi non considerano Raqqa come parte dei propri territori ed erano quindi restii ad andare a liberare la città, temendo di essere percepiti come invasori. Dall’altro curdi e turchi si sono scontrati a lungo più a nord, nei dintorni di Al Bab, distogliendo truppe delle SDF dalle operazioni su Raqqa.

A inizio novembre, complice la pressione americana per procedere in contemporanea con l’offensiva su Mosul, le operazioni sono comunque cominciate. Le SDF stanno impiegando nel settore soprattutto combattenti arabi, per evitare attriti con la popolazione locale e per non sguarnire di truppe curde il fronte caldissimo con la Turchia, dove si teme sempre che possa arrivare un attacco improvviso (in particolare contro Manbij).

In due mesi le SDF sono avanzate soprattutto a ovest di Raqqa, essendo già posizionate a distanza ridotta sull’asse nord, allo scopo di poter attaccare da più direttrici. Al momento si registrano scontri violenti nei pressi della diga Assad sull’Eufrate, vicino ad al Thuwarah. Presa quella cittadina, sarà probabilmente tutto pronto per l’inizio delle operazioni contro Raqqa. Ma non è detto che questo accada automaticamente.

A Raqqa più che a Mosul sarà infatti messa alla prova una eventuale “linea-Trump” in politica estera. Riuscirà a coinvolgere i russi nell’attacco su Raqqa? O otterrà almeno che attacchino contemporaneamente Palmira, riconquistata dall’Isis nei giorni successivi alla vittoria russo-lealista ad Aleppo? E come gestirà i rapporti con la Turchia? La terrà ai margini delle operazioni come fatto finora? Continuerà a puntare sulle SDF a guida curda o li sacrificherà in nome di una riconciliazione con Ankara? E che fare di Assad? Sono tanti e pesanti interrogativi questi, tali che paradossalmente potrebbero congelare il colpo di grazia sulla seconda testa del Califfato per mesi.

X