Dimenticatevi Stranger Things e The OA, guardatevi Peaky Blinders

Tra le serie televisive che piacciono alle masse il suo nome non c'è, ma Peaky Blinders è tra le serie più belle di sempre, con un cast stellare, una scrittura perfetta e poi straordinarie musiche e accenti inglesi incredibili, una perla da non perdere, arrivata quest'anno alla terza stagione

Il mondo delle serie televisive ormai è un universo. Nel 2015, tra canali tradizionali, via cavo e online ne sono state prodotte, da zero, più di 400. Nel 2016 Sono praticamente raddoppiate negli ultimi 5 anni. È così che un servizio come Netflix, negli Stati Uniti offre ad oggi ai suoi abbonati 1326 titoli di serie televisive. Un universo, appunto. Eppure non così tante tra queste trovano un vero pubblico e superano la prima stagione, o addirittura il pilot. E soltanto una sporca dozzina riesce a farsi strada in quella maniera tutta particolare, e abbastanza rara, che le fa entrare nell’olimpo dei prodotti di massa.

Ma come fa una serie televisiva a entrare in quella sporca dozzina di prodotti di cui tutti parlano, che tutti vedono, che tutti adorano e che tutti piangono, pregando per un bis? Ad alcune basta il tempo e il passaparola. Altre, invece, traggono beneficio da un mix di fattori: dalla scelta di un taglio, di un attore e di un argomento che si sanno essere d’appeal per il pubblico, come nel caso di House of Cards, fino al lavoro di posizionamento da parte degli uffici stampa e comunicazione, che a colpi di trailer, regalini e meme si fa strada nel cuore di chi le serie televisive le commenta per lavoro, giornalisti, blogger e youtuber che, se adeguatamente suggestionati, perdono sempre più facilmente la capacità critica e si innamorano di prodotti molto più poveri di quanto riescono ad apparire.

Qualche esempio? Restando soltanto a quest’anno si possono fare diversi nomi. A partire da Stranger Things, una serie il cui hype è stato tra i più efficaci degli ultimi anni, ma che, a distanza di qualche mese dalla sua uscita e a una più attenta visione, rivela i suoi limiti, tra crateri nella sceneggiatura e una mancanza di vere idee che, a una seconda visione, dà le vertigini. O ancora, The O.A., interessante esperimento per le prime puntate, ma una gigantesca supercazzola ad arrivarci in fondo. O, per andare a qualche anno fa e guardare nelle tasche di una major come HBO, una serie come The Newsroom, inizialmente spinta a velocità siderali verso l’hype, ma rivelatasi dopo un paio di puntate poco di più di una tamarrata, tanto retorica e approssimativa del lavoro giornalistico da risultare persino un filo ridicola.

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In questo universo, che funziona a queste regole ed è giusto e comprensibile che sia così, succede anche, a volte, che di una serie televisiva perfettamente scritta, prodotta e girata, di tale altissimo livello da far impallidire le serie sopra citate non riesca ad avere l’attenzione che merita. Da cosa dipende? Da tante cose: può darsi che esca nel momento sbagliato, magari proprio mentre un’altra serie, spinta dalla droga dell’hype, oscura tutto il resto; o anche, più semplicemente, non piace a chi orienta il consumo delle piccole nicchie su cui si costruiscono le bolle dell’hype.

C’è una serie, in particolare, che per qualche motivo inspiegabile, non è ancora diventata un fenomeno di massa che fa passare notti insonni a milioni di fan, ma che, da quando è uscita la prima stagione, nel 2013, resta, almeno in Italia, nell’ombra del consumo compulsivo di una manciata di fanatici. Il suo nome è Peaky Blinders, è arrivata alla terza stagione quest’anno, è prodotta da BBC, in Italia è distribuita (due stagioni, per ora) da Netflix ed è senza ombra di dubbio uno dei migliori prodotti seriali per il piccolo schermo mai prodotti finora.

Gli ingredienti? Una scrittura da serie A, di Steven Knight, uno dei migliori sceneggiatori inglesi (La promessa dell’assassino e Locke, per esempio); un cast perfetto, dal protagonista Cillian Murphy fino all’ultima delle comparse, comprese le spettacolari partecipazioni di un Tom Hardy e di un Sam Neill in grandissimo spolvero; una struttura narrativa aggressiva e densa, sei puntate ogni stagione, senza che si abbia mai la sensazione di assistere a un brodo che si allunga a vuoto; e poi orpelli magnifici, a cominciare dalla colonna sonora, sostenuta da una sigla imponente presa in prestito da Nick Cave e continuando con brani moderni perfettamente incastrati nelle strade fumose e infestate di delinquenti della Birmingham a cavallo tra anni Dieci e anni Venti del Novecento. Strade in cui Tommy Shelby e i suoi fratelli, zingari di origine irlandese con ambizioni di potere assoluto, lottano per avere la meglio nella giungla della mala inglese. Insomma, un capolavoro. Ma con una sola, decisiva indicazione: è da vedere in lingua originale, non per snobismo, ma perché è impossibile, ascoltando le mitragliate di fucking di un gangster con accento del Nord, non sentirsi ridicoli.

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