L’arrivo di Donalnd Trump alla Casa Bianca sta già avendo ripercussioni in tutto il mondo. Il fermento dell’Unione europea, che teme di essere più o meno abbandonata dal suo alleato, è condiviso dal Centro e Sud America, storicamente “il giardino di casa” degli Usa, dall’area del Pacifico, dove le tensioni con la Cina potrebbero scatenare una nuova Guerra Fredda, dalla Russia, galvanizzata dalle promesse di pace del nuovo presidente, e ovviamente dal Medio Oriente.
Qui, paradossalmente, l’isolazionismo americano propugnato da Trump – unito al suo larvato anti-islamismo e ad alcuni indizi della futura politica estera Usa emersi finora – potrebbe propiziare un miglioramento della situazione.
In particolare la faida tra Iran e Arabia Saudita che ha insanguinato il Medio Oriente negli ultimi 7 anni, fomentando lo scontro tra sunniti e sciiti e travolgendo diversi Stati satellite (Siria, Iraq, Yemen, Bahrein etc.), pare stia finalmente entrando in una fase di de-escalation. E la presenza di Trump nello studio ovale potrebbe avvicinare i due rivali, spingendoli a cercare un accordo di spartizione delle aree di influenza, che pacificherebbe finalmente la regione.
Paradossalmente, l’isolazionismo americano propugnato da Trump potrebbe propiziare un miglioramento della situazione, in particolare nella faisa tra Iran e Arabia Saudita
I primi chiari di luna di un raffreddamento delle tensioni tra Riad e Teheran si sono avuti a fine novembre 2016, quando – dopo l’intesa preliminare di settembre – all’Opec i Paesi produttori di petrolio hanno trovato un accordo per la prima volta dal 2008. L’Iran ha acconsentito a porre un tetto alla produzione e l’Arabia Saudita ha accettato un compromesso sul “quantum” della soglia, che non danneggiasse troppo Teheran (la Repubblica Islamica potrà infatti aumentare la propria produzione ancora di alcune centinaia di migliaia di barili al giorno, partendo svantaggiata da anni di sanzioni). All’intesa si è unita anche la Russia, anche lei interessata a veder risalire il prezzo del greggio.
Avrà pesato sicuramente l’affaticamento dell’economia saudita dopo anni di “Guerra del Petrolio”, che ha portato la monarchia del Golfo a intaccare le proprie riserve di valuta pur di mantenere la produzione alta e i prezzi bassi, nella speranza (in larga parte frustrata) di far fuori gli avversari (iraniani e americani dello shale). Ma è probabile che le scelte delle due potenze regionali mediorientali siano state influenzate anche da considerazioni di geopolitica dopo la vittoria a sorpresa di Trump.
L’Iran teme che la stagione del dialogo con gli Usa, avviata con Obama, possa subire una brusca frenata. Già ci sono i primi segnali, come lo stop per tre mesi agli ingressi negli Usa di cittadini iraniani (oltre che libici, siriani, iracheni, yemeniti, somali e sudanesi).
Le conseguenze per Teheran, economiche e geopolitiche, sarebbero enormi. Specie se la Russia “mollasse” l’alleato iraniano in favore di migliori relazioni con la Casa Bianca. L’Arabia Saudita, specularmente, teme che un allontanamento del suo alleato americano la lascerebbe troppo esposta alla Russia, o a un asse sciita ostile e al momento vincente in Siria, in Iraq e in Yemen.Siria, in Iraq e Yemen. Sono questi tre Paesi – non a caso accomunati anche dalla presenza dello Stato Islamico – che potrebbero maggiormente beneficiare di un accordo tra Teheran e Riad
Sono questi tre Paesi – non a caso accomunati anche dalla presenza dello Stato Islamico – che potrebbero maggiormente beneficiare di un accordo tra Teheran e Riad. I Sauditi avrebbero infatti i mezzi economici e diplomatici per gestire il malcontento delle comunità sunnite irachena e siriana, passando dal fomentare le violenze e la guerra al finanziare una ricostruzione e una pacificazione nazionale.
L’Iran, specularmente, potrebbe intervenire sugli Houthi in Yemen e sulle milizie sciite in Iraq e Siria. Di fronte a un’America che si ritira da questa area del mondo e dà l’impressione di discriminare tutti i musulmani, i due maggiori contendenti (sunniti o sciiti, tornerebbe a contare meno) potrebbero trovare saggio accordarsi.Lo hanno fatto a dicembre, ad esempio, in Libano, dove dopo anni di stallo è finalmente nato un Gabinetto. Riad ha esercitato il suo soft-power sul movimento politico di Saad Hariri – primo ministro con doppia cittadinanza libanese-saudita – e Teheran sugli Hezbollah, sciiti, e l’accordo è stato trovato. Il caos che ha caratterizzato il Medio Oriente negli ultimi 7 anni forse non conviene più. Non a caso l’Iraq, che più di molti altri ha pagato la faida sunniti-sciiti e la contesa tra Iran e Saud, si è offerto lo scorso gennaio per bocca del proprio ministro degli Esteri come mediatore tra Riad e Teheran.
Anche la Turchia potrebbe, con Trump, diventare un fattore di stabilità, anche se per ragioni opposte a Iran e Saud. Se questi infatti temono rispettivamente l’ostilità e l’abbandono degli Usa, Ankara può sperare in un suo riavvicinamento, tanto più importante considerato il potenziale e inedito asse tra Cremlino (nuovo alleato di ferro di Erdogan) e Casa Bianca (storico alleato della Turchia).
Gli uomini forti della politica estera del nuovo presidente – Rex Tillerson e James Mattis, segretario di Stato e segretario alla Difesa – hanno infatti avuto parole concilianti per Ankara, propugnando una normalizzazione dei rapporti. Ma se sull’estradizione di Gülen Trump potrebbe anche cedere, più difficile che acconsenta alla seconda condizione di Erdogan per riavvicinarsi, cioè di scaricare i curdi siriani come alleati. Questi sono finora sempre stati infatti la migliore carta che hanno avuto in mano gli Usa nella guerra al Califfato e difficilmente Trump, che sulla sconfitta dell’Isis ha speso parole importanti, potrà rinunciarvi tanto facilmente.
Diventa fondamentale che l’Unione europea si doti degli strumenti per esercitare una vera politica estera. Altrimenti nel vuoto che promettono di lasciare gli Usa rischia di infilarsi la Russia o, peggio, il caos
Oltre che sulla questione curda – che per Trump promette di essere una rogna, intersecandosi con i dossier Turchia, Isis, Iran, Siria, Iraq e Russia – la politica estera del nuovo presidente rischia di inciampare anche su quella palestinese: se fosse confermata l’intenzione di spostare l’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme est – un territorio occupato illegalmente, secondo il diritto internazionale – le opinioni pubbliche islamiche, già indignate per le restrizioni agli ingressi in America da Paesi musulmani, potrebbero reagire in modo rabbioso. Anche la Giordania, storico alleato dell’America e fattore di stabilità da decenni nell’area, rischierebbe di essere travolta se i sostanziosi finanziamenti a nove zeri di Washington dovessero diminuire o cessare.
E andando più a ovest la situazione, se fossero confermate le prime indicazioni di politica estera di Trump, rischia di andare ancora peggio. Se gli Usa lasceranno carta bianca alla Russia e all’Egitto in Libia, come pare, consentendo che il generale Haftar tenti di pacificare il Paese a discapito del governo riconosciuto dall’Onu (e sostenuto dalla comunità internazionale, Italia in testa) di Serraj, si rischia una guerra perenne. La Tripolitania, secondo gli analisti, non può essere infatti controllata dal generale. Troppe e troppo radicate le milizie ostili. La Libia diverrebbe una ferita purulenta peggio che adesso, con gravi ripercussioni sul terrorismo e sull’immigrazione.
Anche alla luce di queste prospettive diventa fondamentale che l’Unione europea si doti degli strumenti per esercitare una vera politica estera. Altrimenti nel vuoto che promettono di lasciare gli Usa rischia di infilarsi la Russia o, peggio, il caos.