Molti film che potremmo definire indipendenti, in questo 2016, sono riusciti nell’impresa di trascendere il proprio pubblico di nicchia e far parlare di sé anche su ampia scala. È il caso di The Witch di Robert Eggers, che è riuscito a conquistare critica e pubblico riadattando per lo schermo un racconto del folklore del New England puritano. Ed è il caso di The Lobster di Lanthimos, con la sua distopia grottesca che ha deliziato alcuni e disgustato altri, ma di cui certamente si è fatto un gran parlare. I film che per una ragione o l’altra – ad esempio una scarsa o tardiva distribuzione italiana – rimangono nel sottobosco, restano però moltissimi, tra cui qualche gioiellino cinematografico che davvero non merita un oblio prematuro.
Victoria
Un po’ robbery movie, un po’ thriller e un po’ film underground che racconta la vita notturna e cosmopolita di una grande città – dai club ai mini market 24h – e, con un tocco di vero disagio da periferia in stile L’odio di Kassovitz. L’unità di tempo – le primissime ore della mattina, all’uscita di un club nel Mitte district – è resa da un espediente tecnico che ha sempre del mirabolante: un unico piano sequenza di ben oltre 2 ore. Ma a differenza del long play manierista e truffaldino di Iñárritu (Birdman) o del rigoroso e impeccabile Arca Russa di Sokurov, il film del regista tedesco non è in primo luogo un esercizio di bravura: qui il virtuosismo di regista, attori e tecnici è ben lontano dal risultare un freddo esercizio di stile. Anzi, è l’esatto contrario. La telecamera che segue pedissequamente una ragazza spagnola nella sua discesa nel ventre molle di Berlino crea infatti un livello di coinvolgimento raro, reso ancora più saldo dalla bravura della protagonista, Laila Costa, che con il tic di raccogliere e sciogliere i capelli e il modo di fare imbarazzato di chi vorrebbe, invece, apparire disinvolto, rende autentica la solitudine della protagonista e la sua smania titubante di esperienze.
Il film richiede uno sforzo estremo ai suoi interpreti, costretti in tempo reale a gironzolare per la città e a improvvisare dialoghi credibili intorno a un canovaccio. Ne escono esausti, come i loro personaggi. E quando la protagonista riemerge dalle tenebre per inoltrarsi nella fredda mattina berlinese, lo spettatore, ancora non molto certo di ciò che ha visto, fa fatica a staccarsi da lei.
Krisha
Nei periodi di festa non c’è nulla di più appropriato dei drammoni familiari in cui, davanti a un intero tacchino e con parenti convogliati da ogni dove, gli scheletri escono dagli armadi e i proverbiali nodi vengono al pettine, fino alla catartica resa dei conti.
Trey Edward Shults è un regista ancora alle prime armi: dopo aver debuttato nel 2010 con un cortometraggio, si dedica negli anni successivi a un nuovo soggetto, ispirato a una vicenda realmente accaduta a una sua parente. Ne ricava due cortometraggi e un lungometraggio (Krisha, appunto), finanziato con una campagna Kickstarter e girato nella casa di famiglia, con amici e parenti come interpreti (fatta eccezione per Bill Wise e Chris Doubek), compresa la protagonista: zia Krisha Fairchild nell’eponimo ruolo.
Girato in modo eterogeneo, con i long play che descrivono realisticamente l’azione e inserti di montaggio più sperimentale dedicati ai pensieri della protagonista, Krisha è un tipico nostos, la storia cioè del ritorno a casa del protagonista. Solo che al posto dell’eroe epico che viene riaccolto in patria con tutti gli onori c’è una zia alcolizzata, i cui tentativi di riconciliazione con i parenti, minati da una costante diffidenza, vengono sistematicamente disattesi, con un crescendo di disagio che l’accoglie appena mette piede in casa e che man mano prende sempre più corpo. Se questo è il risultato, non resta che consigliare agli aspiranti cineasti a corto di budget di far recitare amici e parenti nella casa in campagna dei nonni.
The hunt of the wilderpeople
Il film racconta il rocambolesco viaggio “into the wild” di un anziano e burbero agricoltore (Sam Neill) e di un giovane “avanzo dei servizi sociali” attraverso la giungla della Nuova Zelanda. Un divertente inno alla libertà e alla vita selvaggia per il regista Taika Waititi, già autore del piccolo gioiellino What We Do in the Shadows, brillante mockumentary sulla vita di quattro coinquilini vampiri.
L’ironia si conferma l’arma migliore di Waititi, incarnata in questo film soprattutto dal giovane wannabe-gangster Ricky Baker (interpretato da Julian Dennison). Ogni cosa che esce dalla sua bocca è esilarante come tutte le espressioni del suo viso: è talmente buffo che riesce difficile immaginare perché il suo personaggio fatichi così tanto per trovare una famiglia affidataria.
Il successo del film però sta anche nell’equilibrio da funambolo che Waititi riesce a mantenere tra elementi delicati come l’ironia, la dolcezza, il disincanto e l’iperbole: rischia di essere grottesco ma non lo è mai; potrebbe apparire intriso di cliché ma nei fatti non lo è; sta per scadere nel sentimentalismo eppure riesce a starne alla larga quanto basta.
Il film è stato definito da alcuni una sorta di live action di Up della Pixar e più volte assimilato allo stile personalissimo di Wes Anderson. Eppure, rispetto a entrambi, Wilderpeople è più acido, canzonatorio, a tratti quasi caustico, e nonostante il tono sempre lieve si mantiene lontano sia dalla facile commozione del cartoon Pixar che dalle atmosfere da grosso carillon di Anderson. Lontano dai colori pastello qui troviamo piuttosto: cinghiali giganti, assistenti sociali malvagi degni di un film di Richard Donner, un cane che si chiama Tupac e una citazione di Thelma&Louise, il tutto tenuto insieme da un montaggio e una colonna sonora che creano dipendenza.
They look like people
Senza timore di spoiler, potremmo dire che quello che può essere frettolosamente catalogato come horror o thriller psicologico è in realtà una riflessione sull’amicizia più autentica e sulla difficoltà di accordare fiducia al prossimo.
Wyatt ha abbandonato la fidanzata e, in sostanza, la sua intera vita per prepararsi a una presunta guerra contro forze misteriose: una sorta di invasione/infezione pilotata da creature mostruose che hanno preso il posto e le sembianze delle persone comuni (sembrano persone, per l’appunto). Cercando un po’ di appoggio e sollievo si rivolge a Christian, amico di infanzia, che lo accoglie senza fare domande. Se la minaccia sia reale o solo nella testa di Wyatt non è subito chiaro allo spettatore, che vede il protagonista obbedire a stravaganti istruzioni che provengono dal suo cellulare, da cui una voce – in stile Donnie Darko – gli dice di essere tra i “beati”, coloro cioè che sono in grado di riconoscere i mostri come tali.
Anche Christian ascolta delle voci: si tratta di ASMR che recitano a ripetizione e in tono suadente cose come “Tu sei una montagna”, “Tu sei invincibile” e “Tutto il mondo è racchiuso in te”. Ma l’autostima di Christian non sembra ricavarne nulla di buono e nonostante le pose da yuppy affermato, anche lui si rivela essere patetico e solo come il suo compare senza tetto e schizofrenico. Una storia di fiducia e amicizia che si ispira all’Invasione degli ultracorpi e ricalca le atmosfere cupe ed essenziali degli horror asiatici più minimalisti.
Neon Bull
Per raccontare la vita della famiglia allargata, nomade e in un certo senso circense di un rodeo vaquejada itinerante, il regista brasiliano Gabriel Mascaro si è immerso fino al gomito in una palta di fango, sperma ed escrementi. Neon Bull è il suo secondo lungometraggio di finzione, ma il retaggio documentaristico del regista è presente anche in quest’ultimo lavoro: un ritratto antropologico delle comunità rurali nel Nord-Est del Brasile in un fondamentale momento di passaggio: l’incontro tra il mondo virile degli allevamenti di bestiame e dei rodei e quello commerciale dell’industria tessile in via di sviluppo. Mascaro insiste sul lato fisico: i corpi dei mandriani e quelli degli animali – addirittura, nei balletti di Galega, si accenna a un ibrido tra i due – e i rapporti sessuali che si instaurano in questo microcosmo. In questo mondo testosteronico viene però a innestarsi un principio di ambiguità, rappresentato naturalmente dal personaggio di Iremar, mandriano e aspirante stilista di moda femminile. E ribadito dalla discarica di tessuti e manichini dove lui recupera il materiale da lavoro: una delle immagini più belle del film, che illumina e colora il paesaggio brullo dando una connotazione meno rigida e più queer a questa indagine antropologica di un Brasile rurale di uomini e tori.