Da qualche giorno è in tutte le librerie, edito da Rizzoli, l’ultimo libro di Luca Ricci, intitolato I difetti fondamentali e la cosa, in qualche modo, fa notizia. Perché? Perché non si tratta di un libro come tutti gli altri. Non si tratta di un romanzo, ma di una raccolta di racconti. Raccolta. Di. Racconti. Una formula che in Italia non sembra più indicare un formato letterario, ma che sembra essere diventata una formula magica del malocchio, il cui semplice suono fa terrorizzare tutti. Almeno a giudicare dalla paura che suscita il solo nominarli, i racconti, una paura che contagia tutti, nessuno escluso: editori, scrittori e lettori.
Ormai lo si è sentito ripetere talmente tante volte da essere diventato un ritornello e da essere entrato per bene nella testa degli italiani: l’Italia non è un paese per racconti. Ce lo ripetono da così tanto tempo che ormai siamo tutti vittime di una specie di strano sillogismo. Le premesse sono che gli scrittori non li vogliono scrivere e i lettori non li vogliono leggere. La conclusione, che ovviamente suona come la cosa più naturale del mondo, è che visto che non interessano a nessuno, gli editori non ci investono. Eppure, come ogni sillogismo, anche questa sottospecie di deduzione logica è falsa. Perché? Semplice, perché sono false le sue premesse.
Non è vero, infatti, che gli scrittori non amano scrivere racconti. Quello che si può dire, al più, è che non tutti ne sono capaci. Nel 1956, Jean Stein della rivista Paris Review intervistò il premio Nobel William Faulkner. L’americano, a un certo punto, disse una frase che ha la potenza di un aforisma, di quelli che si ripetono alle cene per fare i brillanti, di quelli che finiscono sulle magliette: «Ogni romanziere, all’inizio, vuole scrivere poesie e, non riuscendoci, prova con i racconti, che sono la forma letteraria più difficile dopo la poesia. Poi, fallendo anche con quelli, l’unica cosa che gli resta da fare è mettersi a scrivere un romanzo».
Non è solo una battuta. Lo dicono in molti, soprattutto tra gli scrittori: “i racconti sono più difficili da scrivere dei romanzi”. E lo sono perché sono più “tecnici”, richiedono una attenzione e un lavoro diverso, più intenso e ingombrante sia sui meccanismi narrativi che sulla lingua, in chi li scrive. Un lavoro tanto intenso ed ingombrante da rendere più faticosa anche l’esperienza di lettura, che difatti richiede in chi legge più duttilità mentale e più abitudine alla lettura di quel che richiede un romanzo.
Eh, sì, sembrerebbe un paradosso, ma pare che chi legge poco preferisca attaccarsi a un romanzone di 1000 pagine, che sulla lunga distanza risulta più comodo e familiare, piuttosto che mettersi in gioco costantemente, ogni 10 o 15 pagine, affrontando una raccolta di racconti. Eppure, nemmeno questo basta a tenere lontani i lettori dai libri di racconti. Almeno, non del tutto. A dimostrarlo ci sono le storie editoriali di tanti libri, italiani e non, che in questi anni hanno fatto la fortuna degli editori anche senza essere romanzi.
In una bella inchiesta, pubblicata da Vanni Santoni su Vice pochi mesi fa, si trova qualche esempio notevole di questi successi: a partire dall’ultimo libro del triestino Mauro Covacich, La sposa, raccolta di 17 racconti che addirittura è riuscita a finire in cinquina allo Strega, fino ai fortunati casi letterari di alcune splendide raccolte uscite negli ultimi anni, raccolte che hanno portato alla ribalta scrittori come Valeria Parrella, Paolo Cognetti, Paolo Zardi, lo stesso Luca Ricci.
La cosa non stupisce. L’Italia è da sempre terra molto fertile per il racconto breve, forma nobile a cui tutti o quasi i nostri migliori scrittori si sono dedicati alla grande. Lasciando stare gli antichi, dai racconti anonimi del Novellino fino a quelli del Boccaccio, e togliendo dal campo da gioco anche i moderni, da quella meraviglia delle Operette morali del Leopardi fino alle novelle di Verga e Pirandello, la grande letteratura italiana del Novecento è composta da autori che, prima di scrivere romanzi memorabili, hanno scritto alcuni tra i più bei racconti di sempre. I loro nomi sono Italo Svevo, Dino Buzzati, Matilde Serao, Grazia Deledda, Carlo Emilio Gadda, Gesualdo Bufalino, Leonardo Sciascia, Primo Levi, Italo Calvino, ma anche, per tornare ai nostri tempi, Michele Mari, Gianni Celati, Andrea Camilleri, senza dimenticare i già citati Ricci, Parrella, Cognetti, Zardi, Covacich, che hanno portato avanti la tradizione anche nel nuovo millennio.
Di scrittori ce ne sono, quindi. E anche di grandi raccolte su cui gli editori potrebbero puntare per rilanciare il formato, la cui duttilità e velocità di lettura suggerisce che siano anche parecchio adatti ai nostri tempi. C’è un unico problema. Ed è sempre lo stesso. La letteratura, quella vera, è faticosa. Come lo sono i racconti. E lo è per tutti. Sia per gli scrittori, che devono avere fantasia e tecnica per saperli scrivere; sia per gli editori, che devono saper lavorare sul serio per poterli comunicare e vendere; sia per noi lettori, che dobbiamo aver voglia di leggere sul serio, voglia di fare fatica e metterci alla prova per decidere di affrontare la lettura di un libro che ricomincia ogni 15 pagine e che, ogni volta, mette sul tavolo un meccanismo narrativo che, in teoria, è lì per spiazzarci.