TaccolaIntesa all’assalto di Generali: ma quale italianità, l’obiettivo si chiama risparmio gestito

Le assicurazioni si sono dimostrate più solide durante la crisi. Ora hanno nuove prospettive di crescita e di profitti, soprattutto sul fronte del risparmio gestito. È lì che punta Intesa. L’italianità c’entra poco. Anche perché Allianz è pronta a prendere le attività all’estero di Generali

Mancava solo il vessillo di guerra, e in serata è stato messo a sventolare. Intesa Sanpaolo ha diramato alle 21 di martedì 24 gennaio quel che tutti avevano capito, a partire dalla preda designata: il gruppo va all’assedio di Generali e, incassato l’appoggio dei principali azionisti, non si fa impressionare dall’incursione diversiva dell’assediato. Ossia dall’acquisto del 3,01% dei diritti di voto di Intesa che renderà necessaria un’Ops e il raggiungimento di ben il 60% del Leone di Trieste. Se sulla strada delle Generali si frappone potenzialmente il colosso Axa, dato per pretendente nelle scorse settimane, Intesa risponde appoggiandosi all‘altro colosso Allianz, tedesco, a cui potrebbero andare le attività francesi del gruppo. Ma mentre rullano i tamburi e non si può che riflettere sui risvolti anche politici dell’operazione, c’è un dettaglio che non dovremmo perdere di vista. Il dettaglio è che se il sistema bancario italiano si è dimostrato negli ultimi due anni molto più fragile di quanto si pensasse (e le istituzioni facessero intendere), le assicurazioni sono riuscite a passare anni di recessione o crescita anemica senza eccessivi scossoni. Basta confrontare il Roe (return on equity) dei rispettivi settori nel 2015. Per le assicurazioni (fonte Ania) è stato del 9,6 per cento. Per le banche (fonte Accenture Finance) di appena lo 0,9%, una frazione del 9% del 2007 (lo stesso anno le assicurazioni lo avevano fissato al 12,5%). Anni bui sono stati per chi assicura il 2008, 2010 e 2011, da allora i rendimenti si sono stabilizzati, con eccezioni come lo scandalo Fonsai.

Se le assicurazioni si stanno dimostrando in salute è anche per il recupero del ramo danni. Come ha spiegato un report di S&P Global Ratings, presentato il 12 gennaio a Milano, uno dei motivi del recupero di redditività è stata la legge del governo Monti che nel 2012 ha imposto il certificato medico anche per lievi danni fisici in caso di incidente d’auto: i costi medi da allora per tali danni minori sono scesi di circa il 10 per cento. Per il 2017 S&P stima una crescita dei premi nel ramo vita del 3%, con una spinta soprattutto dalle polizze unit-linked, ossia da strumenti misti assicurativo-finanziari con i quali il contraente investe in fondi per una durata pari alla propria esistenza in vita. La spinta sarà determinata sia dalla direttiva europea Solvency II sia dagli italiani Piani individuali di risparmio, o Pir: si tratta di una forma di investimento a lungo termine in strumenti finanziari delle Pmi che daranno alle persone fisiche che investiranno l’esenzione dalle tasse sulle rendite finanziarie. E che passeranno per una buona fetta dalla assicurazioni. Il ramo danni dovrebbe invece crescere nel 2017 tra l’1 e il 3 per cento, ma il potenziale è alto, soprattutto sul lato non-motoristico. Basti pensare all’eventualità di un’assicurazione obbligatoria per i terremoti, per quanto potrebbe essere calmierata dallo Stato sul modello della Nuova Zelanda. Il lato meno positivo riguarda l’impatto negativo che hanno i tassi bassi fissati dalla Bce anche su questo comparto, in particolare per il risparmio gestito.

Basta un dato a segnare la differenza tra banche e assicurazioni. Il Roe delle prime è sceso allo 0,9%, quello delle seconde è al 9,6 per cento

È se si inquadrano questi dati che si capisce meglio la nota di Intesa, o meglio la dichiarazione di guerra al Leone. «Intesa Sanpaolo conferma – si legge – il proprio interesse industriale per la crescita nel settore del risparmio gestito, del private banking e in quello dell’assicurazione in sinergia con le proprie reti bancarie, anche con possibili partnership internazionali». La crescita intende essere endogena ed esogena, cioè con acquisizioni. «Tali opportunità, incluse possibili combinazioni industriali con Assicurazioni Generali, sono oggetto di valutazioni in corso da parte del management», chiosa la nota.

Sarebbe quindi un’operazione con un senso industriale? Sì, secondo Nicola Borri, assistant professor di Economia alla Luiss: «Le assicurazioni oggi sono diventate in misura sempre maggiore delle società di gestione del risparmio. Dato che in Italia in questo comparto la concorrenza non è particolarmente rilevante, si possono ottenere profitti lauti». Oggi è in corso una battaglia per i clienti retail e per i 7mila miliardi di risparmio privato che oggi fanno gola a molti (come ha fatto notare tra gli altri Finanze.net, partendo dalle novità sui Pir già richiamati). È possibile che Intesa stia provando a sfruttare il momento positivo di immagine che ha guadagnato presso il grande pubblico dimostrandosi più solida delle concorrenti in questi anni complicati. Oppure, in maniera più tattica, ha approfittato di una fase in cui sia Vincent Bolloré che Unicredit, principali azionisti di Mediobanca, a sua volta primo azionista di Generali, erano poco reattivi per gli sforzi rispettivamente sul fronte Mediaset e su quello dell’aumento di capitale. E in cui il clima nell’opinione pubblica e nel governo era poco favorevole a nuove incursioni francesi, in particolare su un soggetto come Generali.

Se questi sono i vantaggi, ci sono anche i risvolti negativi per “Ca’ de Sass”. «Se, come si legge, Intesa intende vendere tutta o parte della presenza all’estero di Generali ad Allianz, per concentrarsi su quelle italiane, aumenterebbe ancora di più la sua presenza in Italia invece che diversificare a livello europeo – sottolinea Borri -. Questo comporta dei rischi, considerando che l’Italia ha un’economia debole e un debito sovrano a rischio». Come ha fatto notare a Class Cnbc Giovanni Perissinotto, per 30 anni in Generali, di cui è stato anche direttore generale e ad, il nuovo gruppo, che gestirebbe circa 1.200 miliardi di euro di risparmi, oltre a poter non ottenere i risparmi di efficienza sperati, finirebbe per incrementare i rischi sistemici del Paese a causa della maggiore concentrazione.

Oggi è in corso una battaglia per i clienti retail e per i 7mila miliardi di risparmio privato italiano che oggi fanno gola a molti

Secondo Borri quella su Generali sarà la prima di una serie di operazioni di concentrazione che necessariamente si dovranno concretizzare nei prossimi anni, data la debolezza del sistema finanziario italiano. Generali, tuttavia, non è una società qualsiasi. Da sempre è un soggetto vicino alla politica, perché chiamato innumerevoli volte a operazioni di sistema, che si trattasse di Mps (vedi l’ultima conversione di 800 milioni di bond in azioni) o di Alitalia, fino al fondo Atlante. E Trieste detiene qualcosa come 70 miliardi di titoli di Stato italiani e una sua uscita dal perimetro nazionale ha storicamente inquietato i governi italiani perché significherebbe il venire meno di un interlocutore affidabile nei periodi di crisi. Non a caso nelle settimane scorse erano partiti gli appelli alla difesa dell’italianità delle Generali in due occasioni: la scalata a Mediaset da parte di Vivendi, guidata da Vincent Bolloré, secondo azionista di Mediobanca, che a sua volta è primo azionista di Generali. E l’aumento di capitale di Unicredit, a sua volta primo azionista di Mediobanca, per il peso crescente che potrebbero avere i francesi nella banca di piazza Gae Aulenti. Mosse che sarebbero state propedeutiche al takeover di Generali da parte della francese Axa, secondo gruppo assicurativo dopo Allianz. Anche l’appello del ministro Carlo Calenda per la creazione di rete di imprese e istituzioni finanziarie italiane sembrava guardare proprio alla difesa di Generali.

«Le assicurazioni oggi sono diventate in misura sempre maggiore delle società di gestione del risparmio. Dato che in Italia in questo comparto la concorrenza non è particolarmente rilevante, si possono ottenere profitti lauti»


Nicola Borri, Luiss

L’operazione di Intesa, forse la banca che più ha appoggiato le riforme del passato governo, è stata quindi ispirata dall’esecutivo? È impossibile saperlo con certezza, ma il docente della Luiss, tende a escludere l’ipotesi: «Stiamo parlando di un’operazione dalle dimensioni monstre, è difficile che per cifre tanto alte (Generali ha una capitalizzazione di 22 miliardi di euro, ndr) una banca quotata come Intesa faccia qualcosa perché lo suggerisce il governo. Anche perché se davvero si prospettasse lo spezzatino di Generali, sarebbe difficile parlare di difesa dell’italianità».

I veri punti a cui guardare sono altri. Il primo sono i segnali di debolezza che Generali ha dato nell’ultimo anno, dopo l’uscita di Mario Greco come la vendita di asset importanti dagli Stati Uniti al Messico a Israele. L’ultimo segnale è stato il prossimo licenziamento del direttore generale Alberto Minali, in contrasto sulle strategie con l’ad Philippe Donnet. La società, che anni fa aveva una capitalizzazione simile ad Allianz e Axa, vale oggi meno della metà dei concorrenti. Il secondo punto è la riflessione che va fatta sulle conseguenze di un eventuale spostamento all’estero del cervello di Generali. In Italia rimarrebbero le reti di vendita che, tuttavia, portano minore valore aggiunto. Essere colonia vuol dire in primo luogo questo.

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