Invecchiare è bello: perché le donne di oggi dovrebbero prendere lezioni dalla Befana

Basta coi buoni sentimenti. Invecchiare ha il suo fascino, ma è un fascino inquietante. Il modello di bellezza "normalizzato" della donna agé è una mistificazione, ed è ora di abbandonarlo

Babbo Natale non scomparirà mai perché è la post verità più vera che ci sia. Il post dio. “L’unico fake autorizzato”, ha scritto Giuliano Ferrara su Twitter, l’ultimo dell’anno. A forte rischio d’estinzione, invece, c’è la Befana. Perché è brutta e noi combattiamo la bruttezza, dicendola bella (dovendo usarla a sostituzione della bellezza, che abbiamo annientato dicendola soggettiva). Perché è vecchia e noi combattiamo la vecchiaia facendola giovanile o, più subdolamente, magnificandola. “La vecchiaia? E’ un luogo comune”, titolava a novembre il settimanale Pagina99 riportando ricerche e statistiche che rilevano gli anni più felici nell’infanzia e nell’età adulta (“i due stati più profondi che è dato di vivere”, diceva Marguerite Yourcenar); tantissimo sesso tra gli anziani; qualche illuminato che sta provando a far capire alle aziende che il personale maturo ha competenze da trasmettere e non da riciclare; la smentita scientifica del collegamento tra l’invecchiare e il rincoglionire (o anche la conferma scientifica del De Senectute di Cicerone, 44 a.C.). “Nella mia vita ho amato con tutta me stessa e ho detestato senza pietà: la mia faccia mi ha seguita allo stesso modo”, dice Heather Parisi nel punto cruciale del suo monologo per “Nemicamicissima” (lo show che l’ha riportata in televisione insieme a Lorella Cuccarini, lo scorso dicembre) che per giorni è rimbalzato sul lungolago di Internet, quello dei buoni sentimenti in cui riconoscersi senza necessariamente provarli. Sguardo fisso in camera e quintali di cerone, a dire che lei non aveva intenzione di sottostare alle regole di “un mondo che non ci accetta mai per come siamo davvero”.

Cuccarini e Parisi, le due biode attempate hanno preso a tirarsi i capelli a suon di «lei vuole ancora mostrare la gambetta, io non più»

Nemmeno una menzione, un pensiero al calendario Pirelli 2017, dove al posto delle usuali donnine nude e sensuali, ce ne sono dodici sfatte, coperte e overcinquanta e dicendola così molto lunga, anche se involontariamente, sull’utilità quasi nulla delle rivoluzioni di immagine che non sono pensate come contestazioni, ma come manuali d’auto-aiuto.
Nei giorni immediatamente successivi al programma, molto visto, dibattuto e cinguettato, Ether ha aperto una polemica insensata, accusando Lorella Cuccarini di averle ridotto spazi e visibilità e così, per la gioia del gossip, le due bionde attempate hanno preso a tirarsi i capelli a suon di «fai pace col cervello» (Cuccarini a Parisi) e «lei vuole ancora mostrare la gambetta, io non più» (ancora Cuccarini a Parisi), come in una vajassata da corteggiatrici dei tronisti di Maria De Filippi. Va dato atto che due signore che bisticciano come ragazzine sono la prova della continuità giovinezza-vecchiaia, di come entrambe siano statuti mentali o, meglio ancora, “luoghi comuni”, ma certo sono le testimonial meno credibili di una riappacificazione con la naturalità del trascorrere del tempo e con la saggezza che questa accorda – o dovrebbe accordare – all’uomo.

A far delle rughe eroico vessillo ci aveva già pensato, un po’ più credibilmente, Anna Magnani: «lasciami tutte le rughe, ci ho messo una vita a farmele!», ebbe a dire alla sua truccatrice, durante le riprese di Mamma Roma. La frase sta in tutte le raccolte di aforismi sulla vecchiaia, ma quando la pronunciò, Anna Magnani aveva poco più di cinquant’anni.
Di autorevoli rughe parlò, come fossero militi ignoti, persino Dustin Hoffman, una volta: «sul viso indossate ciò che la vita vi ha fatto». Lo fece all’alba del nuovo millennio, quando era importante disintossicarsi da Hollywood dove, in particolare per le attrici, negli anni Novanta si diceva che non appena gli anni cominciavano a essere visibili sulla pelle, non restavano che ruoli da A Spasso con Daisy (un film meraviglioso la cui protagonista femminile è un’insopportabile ultrasettantenne).

Solo la Befana incarna una reale gioia (che nulla ha a che vedere con l’orgoglio, sempre sospetto) dell’invecchiamento. La sua effrazione non è la bellezza, ma la sua spregiudicata, insindacabile assenza. Il suo fascino sta nell’impossibilità di renderla rasserenante

Solo la Befana incarna una reale gioia (che nulla ha a che vedere con l’orgoglio, sempre sospetto) dell’invecchiamento.

Perché è brutta, rugosa, ingobbita, vestita di stracci, incrocio di bene e male (così la volle il cattolicesimo, quando si spinse ad accettarla nonostante la matrice pagana del suo culto), stregonesca. Inaffidabile. Rumorosa. Spericolata (vola a tutta birra su una scopa, di notte). La sua effrazione non è la bellezza, ma la sua spregiudicata, insindacabile assenza. Il suo fascino sta nell’impossibilità di renderla rasserenante. Tra il ricorrere alla chirurgia estetica per piallare i solchi del viso e il sostenere che la vecchiaia non va nascosta perché non ci cambia, non c’è molta differenza (vedere lo sfinimento di Madonna nel camuffare lo sfinimento della sua età: nulla a che fare con la stupenda sottrazione di Mina dalle telecamere, saggia scelta di una donna intelligente che sa bene che non c’è modo di sottrarsi all’usura del tempo).

La vecchiaia continuerà ad avere, nella sua verità, l’indebolirci, l’imbruttirci, l’infiacchirci, l’instupidirci. La Befana fa, di tutto questo, il proprio ineffabile potere. Non c’è una Befana incarnata migliore di Alda Merini, poetessa: brutta, bruttissima, impossibile alla bellezza, con i capelli sporchi, incanutiti in modo disordinato, la sigaretta sempre accesa, gli occhi infossati, tenerissimi e inquietanti. La sola donna al mondo capace di essere non al naturale (che è l’etichetta della nuova omologazione), ma di sua natura. Alda Merini ebbe una quantità impressionante di amanti: fu amata perché era tempestosa, poetessa, pazza, ma soprattutto perché la sua bruttezza non era né orgoglio né una diversa bellezza, ma il volto, rarissimo, forse unico, del selvatico. È impossibile resistere all’opposto dell’umano, dell’umanesimo, della civiltà, soprattutto dopo che l’Ottocento ha preso a sostituire la nozione di stabilità con quella di sviluppo.

Non c’è una Befana incarnata migliore di Alda Merini, poetessa: impossibile alla bellezza, con i capelli sporchi, incanutiti in modo disordinato, la sigaretta sempre accesa, gli occhi infossati, tenerissimi e inquietanti

“È buffo pensare che tu, perdendo la tua vecchia amante ormai logora e io, perdendo il mio giovane amico scandaloso, abbiamo perso ciò che di più onorevole possedevamo in questo mondo”, fa scrivere Colette a Lea de Lonval, cortigiana cinquantenne innamorata di un ventenne e protagonista del suo romanzo più celebre, Cherì. Per Colette nulla invecchiava una donna più della campagna.

Per Cher, invece, “una vera donna non invecchia mai” (Sirene, film). Lo scandalo onorevole della vecchiaia era quello inscritto nel volto di Alda Merini ed era il senso della sua vitalità, mai arresa al tempo. Altro che Jane Fonda che tiene a farci sapere che anche a ottant’anni si può prendere una cotta (nel suo caso specifico, per Robert Redford) e sentire le farfalle nello stomaco e quindi essere (cioè sentirsi) ordinariamente giovincelli.

Qualche mese fa, su La VentisettesimaOra del Corriere, Eleonora Cirant ha scritto: “oggi non è tempo di conflitti. Si preferisce la gentilezza. La donna moderna non è conflittuale, è conciliante. Se una volta la femminista era la strega, oggi è al massimo una befana”. Ha ragione, ma dimentica la stretta parentela tra streghe e befane, rimasta significativamente nell’iconologia che le vuole dotate, tutte, di scope (scope che non puliscono, ma volano, scelgono e fanno incantesimi). Se le streghe non possono tornare, allora (e in fondo è giusto così), teniamoci assai strette le befane.

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