Aleggia lo spettro dell’Isis sull’ennesima strage in Turchia. In una discoteca di Istanbul uno o più uomini armati hanno aperto il fuoco sulla folla, facendo 39 morti e quasi cento feriti. Il modus operandi e l’obiettivo prescelto sembrano indicare la pista jihadista, anche se è presto per avere certezze. Il Paese è infatti da più di un anno sconvolto da attentati di varia matrice.
I guerriglieri curdi del Pkk colpiscono soprattutto i militari turchi nel sud-est dell’Anatolia, dove vive la minoranza curda, che dal 2015 è oggetto di una violenta repressione. I curdi del Tak, ala scissionista del Pkk, colpiscono anche fuori dai propri territori (ad esempio a dicembre hanno attaccato le forze di polizia che presidiavano lo stadio di Istanbul), soprattutto bersagli militari, anche se non di rado causano vittime “indesiderate” tra la popolazione civile. l’Isis, in principio sostenuto più o meno indirettamente dalla Turchia e, su pressione americana, invece combattuto a partire dal 2015, colpisce gli obiettivi più disparati. È la sua strategia, imprevedibile e vincente, anche in uno Stato di polizia come la Turchia di oggi.
Su alcune stragi – come quella di Ankara di ottobre 2015, causata da una duplice esplosione a una manifestazione pacifista promossa dal partito curdo Hdp, alla vigilia del voto di novembre – aleggia però il sospetto che, anche se la manodopera è quasi certamente jihadista, sia arrivata un’imbeccata dallo “stato profondo” turco. Un groviglio di servizi e apparati di sicurezza che negli ultimi anni è in grande fermento.
La Turchia sta vivendo una stagione torbida e confusa. Già prima del fallito golpe di luglio 2016, come detto, giravano voci su “lavori sporchi” fatti dai servizi segreti e manovre del potere politico per orientare i sentimenti della popolazione verso la paura di invisibili nemici, la sindrome da assedio, il bisogno di avere un uomo forte al comando e di una nuova Costituzione che gli desse i poteri necessari. Anche sulla recente uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia da parte di un poliziotto turco, che in passato aveva anche fatto da scorta a Erdogan, ci sono diverse speculazioni.
Gli attentati in patria di matrice jihadista, il rafforzamento dei curdi in Siria, le difficoltà militari sul campo, le distanze crescenti con l’Occidente e l’instabilità sempre più palese sono il conto che la Turchia sta pagando per gli errori di calcolo del passato, quando inseguiva sogni di potenza neo-ottomana nel contesto del dopo-Primavere arabe
Questo caos non è nato dal nulla ovviamente. La Turchia pare aver perso la bussola negli ultimi anni di presidenza di Erdogan. Si allontana sempre più dall’Occidente suo alleato, si è invischiata nella guerra in Siria – abbandonando così la tradizionale linea del “zero problemi coi vicini” – ed è quindi ora in rapporti tesi con l’asse sciita, Teheran in testa. Specularmente è stata costretta a un’alleanza di comodo con i Saud, sunniti ma nemici giurati della Fratellanza Musulmana (invece supportata da Ankara) e sospettati di manovrare gruppi estremisti salafiti per i propri scopi, salvo poi non essere in grado di controllarli. Un peccato questo da cui pare non sia esente la stessa Turchia.
Gli attentati in patria (autenticamente) di matrice jihadista, il rafforzamento dei curdi in Siria, le difficoltà militari sul campo che Ankara sta fin qui incontrando, le distanze crescenti con l’Occidente e l’instabilità sempre più palese sono il conto che la Turchia sta pagando per gli errori di calcolo del passato, quando inseguiva sogni di potenza neo-ottomana nel contesto, che non aveva correttamente interpretato, del dopo-Primavere arabe. La contromossa di Erdogan per cercare di emergere da questo caos è stata, nell’estate del 2016 e poi sempre più, ingoiare l’orgoglio, chiedere scusa a Putin e portare il proprio Paese nell’orbita di influenza russa come mai era successo prima. In cambio dovrebbe – tutto lo lascia supporre – coronare il suo progetto di iper-presidenzialismo, con se medesimo nella posizione di presidente-autocrate.
Non è un calcolo privo di fondamento, oltre che di personale tornaconto, quello di Erdogan. Mosca è infatti diventata negli ultimi due anni la super-potenza in Medio Oriente. Non solo per via dell’intervento in Siria e per le armi avanzate che in quello scenario ha portato. Anche per i rapporti che il Cremlino è andato intessendo – approfittando della latitanza e dei tentennamenti americani – con Egitto, Israele, Iran, Libano e Iraq. La vicinanza di Ankara con la Russia ha già prodotto alcuni risultati: la caduta di Aleppo in Siria, propiziata dal tradimento di quella causa ribelle da parte di Erdogan; l’ingresso dell’esercito turco in Siria, per impedire l’unificazione del Rojava curdo; e ora un accordo di pace per l’intero Paese. Tale intesa è nata da un negoziato a tre tra Turchia, Russia e Iran. Escluso proprio quell’Occidente che Erdogan sempre meno tiene in considerazione, pur essendo Ankara ancora nella Nato.
La pax russa in Siria presenta però diverse criticità. L’esclusione dalla tregua dei curdi siriani del Ypg – una concessione di Putin a Erdogan – è potenzialmente pericolosa. L’Ypg è infatti interlocutore privilegiato degli Usa nella guerra all’Isis e Trump, che da un lato ha dichiarato di voler trovare soluzioni concordate con la Russia, dall’altro ha promesso una esemplare sconfitta per il Califfato. Da come deciderà di muoversi la prossima amministrazione americana dal 20 gennaio in poi si vedrà se i curdi saranno sacrificati sull’altare di un’intesa russo-turco-americana, o se invece la decisione emersa dal negoziato condotto da Mosca si rivelerà un boomerang per i suoi sostenitori.
La contromossa di Erdogan per cercare di emergere da una stagione di caos è stata, nell’estate del 2016 e poi sempre più, ingoiare l’orgoglio, chiedere scusa a Putin e portare il proprio Paese nell’orbita di influenza russa come mai era successo prima
L’esclusione delle sigle terroristiche (Isis e Al Qaeda specialmente) dal cessate il fuoco crea poi un problema pratico: nella provincia di Idlib, la più importante roccaforte ribelle nell’ovest del Paese, sono mescolati insieme ribelli “moderati” e fanatici islamici. Eventuali campagne di bombardamenti indiscriminati, come quelli visti ad Aleppo, potrebbero essere indigeste per le opinioni pubbliche musulmane sunnite.
C’è poi la questione dell’Iran, che finora ha sostenuto le mosse del Cremlino, ma nel medio/lungo periodo ha un’agenda differente rispetto a Mosca. Teheran è infatti coinvolta in più scenari in una faida per l’egemonia sul Medio Oriente con Riad, e quella siriana è una partita dove ha speso moltissimo e vuole passare all’incasso. Eventuali accordi troppo “teneri” coi ribelli sunniti siriani potrebbero un domani essere bloccati dall’Iran sciita, creando problemi ad Ankara ma soprattutto a Mosca, che invece con le potenze sunnite vorrebbe ricucire rapporti diplomatici più distesi.
Ad Ankara può infine creare grosse difficoltà la reazione che avranno a questa sua nuova linea filo-russa in Siria le monarchie del Golfo, Sauditi in primis. Riad è impantanata in una guerra in Yemen contro i ribelli sciiti e potrebbe decidere di incassare il colpo in Siria per concentrarsi su altri fronti di scontro con l’Iran. Ma – complice la risalita dei prezzi del petrolio, linfa vitale per i Saud e ora stabilmente sopra i 50 dollari al barile – ad oggi non sembra probabile.
Allora se Riad, restando coinvolta in Siria ma stavolta sul lato opposto della barricata rispetto ad Ankara, scatenasse una campagna nel mondo musulmano sunnita per screditare Erdogan, colpevole di aver “venduto” la ribellione siriana ai nemici sciiti, per la Turchia sarebbe un problema. In questo caso l’isolamento turco infatti peggiorerebbe ulteriormente, la dipendenza da Mosca aumenterebbe – con ripercussioni potenzialmente gravi sui rapporti di Ankara col resto della Nato – e il caos interno potrebbe fare l’ennesimo salto di qualità. Un presidente che si è costruito il consenso sulla retorica islamista conservatrice rischierebbe di trovarsi contro la sua stessa base elettorale e parte del suo establishment.