TaccolaModello Finlandia: volete il reddito di cittadinanza? Scordatevi il welfare

Nel Paese scandinavo parte la sperimentazione per un reddito di base da 560 euro per i disoccupati. Andrà a sostituire i sussidi di disoccupazione. Ed è un segnale: il lavoro diventa sempre più marginale nelle società che affrontano l’automazione

Vi vengono in mente lotterie i cui vincitori siano costretti a ritirare il premio? No, e allora è meglio partire da qui, quando si parla del reddito di base appena introdotto in Finlandia in via sperimentale su duemila persone. Questi cittadini finlandesi negli articoli nostrani vengono etichettati come dei “fortunati” destinati a un biennio di felicità a causa di un reddito garantito (di 560 euro mensile) che arriverà loro senza alcuna condizionalità, cioè rimarrà anche se nel frattempo avranno trovato un impiego. In realtà le cose non stanno proprio così: chi sarà selezionato sarà un disoccupato che dovrà rinunciare a parte dei precedenti benefici sociali, a partire dal sussidio di disoccupazione (il reddito di base sarà detratto dal totale). Per questo i beneficiari non potranno rifiutare: con un’accettazione volontaria ci sarebbe una distorsione nel confronto con il gruppo di controllo, ossia con le persone che continueranno a ricevere i normali sussidi. Il fatto è che, come dimostra un report dettagliato della Kela, l’ente nazionale per l’assicurazione sociale, che curerà il test, per alcune tipologie di persone il beneficio di un eventuale reddito di base potrebbe essere limitato o praticamente nullo. È il caso di una madre single con figli (a certe condizioni di reddito e di sussidi).

A essere pignoli, durante la sperimentazione il rischio è limitato: la Costituzione tutela i cittadini da indebolimenti della situazione economica in casi come questi e, a causa di un “bug” del sistema dovuto alla fretta di partire, i redditi di base erogati saranno esentasse. Tuttavia, un dato rimane: i sistemi che prevedono redditi di base nelle intenzioni sono alternativi alle forme tradizionali di welfare. Tanto più in un’Europa che già, con il 7% della popolazione mondiale e il 20% del Pil, vede il 50% della spesa globale per il welfare. Nelle simulazioni della Kela, se in Finlandia si decidesse di seguire la strada più radicale – un reddito di base universale per tutti i maggiorenni – la sostituzione delle attuali forme di supporto sarebbe praticamente totale (la tabella in fondo all’articolo rende l’idea). Con un reddito di base limitato ai disoccupati e più ridotto negli importi, soluzione effettivamente adottata per la sperimentazione, l’assistenza tradizionale rimane, anche se assottigliata.

Basta questo per mandare in tilt i punti di riferimento politici tradizionali sulla lotta alla diseguaglianza. In Finlandia il reddito di base è una nuova bandiera del Partito di Centro Finlandese (liberale e di centro-destra) e in particolare del primo ministro Juha Sipilä. Per il governo non è tanto o non solo una misura di lotta alla povertà, in un Paese che ha già strumenti di welfare molto robusti (sussidi di disoccupazione, sussidi per la casa, sussidi per i figli eccetera). È, piuttosto, un modo per tagliare la burocrazia e per ridurre i disincentivi alla ricerca di lavoro e alla creazione di nuovo lavoro. Con gli attuali sussidi, è il ragionamento, chi è disoccupato è poco incentivato a trovare un impiego (perché perderebbe il sussidio, pari in media alla metà dei salari medi) e ancor meno a creare una nuova impresa. Il nuovo reddito di base, invece, rimarrebbe anche in caso di un nuovo lavoro trovato o creato e sarebbe quindi meno distorsivo. Vale la pena ricordare che alcune misure di sostegno al reddito di tipo automatico, come la tassazione negativa, hanno le radici nel pensiero degli economisti liberali Milton Friedman e Juliet Rhys-Williams. E che fu il repubblicano Richard Nixon uno dei primi politici a prospettare un piano, poi ritirato, per un reddito minimo che sostituisse le precenti forme di welfare.

Per il governo finlandese, di centro-destra, il reddito di base non è tanto o non solo una misura di lotta alla povertà. È, piuttosto, un modo per tagliare la burocrazia e per ridurre i disincentivi alla ricerca di lavoro e alla creazione di nuovo lavoro

La freddezza con cui la sperimentazione è stata accolta dai socialdemocratici dell’Sdp è significativa (criticità sono arrivate anche dall’Alleanza per la sinistra e dai verdi, ma su aspetti specifici come l’esclusione dalla sperimentazione degli under 25). Per le forze politiche e sociali legate alla sinistra (sindacati inclusi), in tutto il mondo, un reddito minimo universale slegato da condizionalità cambierebbe i paradigmi e dipingerebbe un mondo che non vedrebbe più il lavoro al centro. Per loro significherebbe ritrovarsi svuotate di ogni funzione sociale. I dilemmi e le contraddizioni di questo passaggio sono stati ben descritti su Linkiesta da Lorenzo Castellani: non è detto che l’alternativa sia migliore dal punto di vista sociale, dato che il rischio sarebbe di trovarsi intere fette di popolazione rese ancora più dipendenti dalla politica e trasformate di fatto in clientes.

Ci sono, in questi ragionamenti, due convitati di pietra sempre più ingombranti: la tecnologia e l’automazione, che potranno, se non bruciare il lavoro, renderlo marginale e di basso livello. «Invece di una “jobless society” – società senza lavoro – stiamo andando verso una “crappy job society”, una società dei lavoracci – hanno scritto su Linkiesta Francesco Luccisano e Stefano Zorzi -. Ciò che sta succedendo è che il lavoro vale sempre di meno e il valore si crea altrove: dalle rendite finanziarie, dagli algoritmi, dallo sfruttamento di grandissime masse di dati». Per questo, un sociologo bandiera della sinistra come Paul Mason non solo considera il reddito di base universale necessario, ma invita a vederlo come un “sussidio all’automazione”.

Per le forze politiche e sociali legate alla sinistra (sindacati inclusi) un reddito minimo universale slegato da condizionalità creerebbe un mondo senza più il lavoro al centro. Per loro significherebbe ritrovarsi svuotate di ogni funzione sociale

Ma che mondo sarebbe se le politiche di welfare fossero destinate a essere sostituite da un reddito di base? La sperimentazione in Finlandia darà alcune risposte, da verificare nel 2019. Ma le premesse del gruppo di studio della Kela sono una bussola preziosa. In primo luogo, nessun modello è esportabile da un Paese all’altro, e questo dovrebbe essere ricordato da chi citerà il modello finlandese nei prossimi mesi (in Italia il Movimento Cinque Stelle propone un sistema misto, di reddito condizionato alla formazione e accettazione di lavori giudicati congrui e sostegno al reddito dei pensionati). In secondo luogo, variazioni minime nel modello, nella livello di reddito fissato e nella tassazione applicata producono effetti rilevantissimi. Per questo il gruppo di lavoro, che ha supportato il governo finlandese nel processo decisionale, ha creato diverse ipotesi: un reddito di base universale, esteso a tutti cittadini maggiorenni (esclusi i pensionati); un reddito di base parziale, applicabile a persone tra i 25 e i 63 anni in cerca di lavoro; una tassazione negativa; delle ipotesi di reddito di partecipazione (con forti condizionalità) e di credito universale, sul modello britannico.

I risultati delle varie simulazioni sono tutti da leggere. Con un reddito di base esteso a tutti veniva ipotizzata una flat tax variabile dal 60% (nell’ipotesi caso di un reddito di base di mille euro) al 79% (con un reddito da 1.500 euro). L’ipotesi, che avrebbe visto precipitare l’indice Gini che misura le diseguaglianze, è stata scartata, anche per gli enormi costi per il bilancio dello Stato. La strada privilegiata, quella di un reddito di base di 560 euro limitato ai disoccupati tra i 25 e i 63 anni, terrebbe i conti più in equilibrio (nello studio si parla di un aggravio er il bilancio pubblico finlandese di 9 miliardi di euro, 11 se il reddito rimanesse esentasse). Ma lascerebbe in piedi tutta o quasi l’attuale burocrazia destinata all’erogazione degli attuali sussidi (rimarrebbero senz’altro quelli legati alla casa), con buona pace della semplicazione promessa dal premier Juha Sipilä. Altre forme di contrasto alla povertà, come la tassazione negativa, non sono bocciate ma considerate troppo difficili da attuare senza una riforma del registro nazionale dei redditi, che dovrebbe partire nel 2019. Inoltre, leggendo il report emerge una certa delusione da parte del gruppo di lavoro per il budget limitato per il test (20 milioni di euro) e per i tempi ristretti per partire, che renderanno la sperimentazione probabilmente poco accurata. Per questo alla Kela richiederanno nuovi test, con vari livelli di reddito minimo e livelli di tassazione diversi messi a confronto. Se il caso finlandese è un esperimento con pochi eguali nel mondo (a parte dei test tra Olanda e Canada), per avere dei verdetti servirà ancora molto tempo.

Gli effetti sulle politiche di welfare tradizionale nel caso di un reddito di base universale (in alto) e di un reddito di base parziale (in basso).


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