Palestinesi, siriani, iracheni: come vivono i rifugiati in Libano, dove nessuno è straniero

Oggi, un abitante su quattro del Libano è un siriano. Ma qui arrivano in fuga da Palestina e Iraq. La politica di Beirut non è mai stata tenera con loro: c'è un delicato equilibrio politico-religioso da tenere in piedi

Da Beirut

Benvenuti nel Paese dove nessuno è straniero perché quasi tutti sono stranieri. Il Libano è così, una specie di miracolo in una regione dove nessuno, ma proprio nessuno, crede più ai miracoli. Il Libano ha circa 4,5 milioni di abitanti e da sempre lotta per non farsi travolgere dalle tragedie altrui. Da decenni, e soprattutto a causa prima della formazione dello Stato di Israele (1948) e poi del Settembre Nero in Giordania (1970) sono presenti molti palestinesi in fuga dalle loro ricorrenti disgrazie. Oggi sono quasi 450 mila e da soli costituiscono il 10% della popolazione del Libano. Anzi, un po’ di più perché altri 40 mila palestinesi sono arrivati da queste parti in fuga dalla guerra civile in Siria.

I palestinesi che vivono in Libano, quasi tutti nei dodici campi profughi ufficiali (che nel frattempo sono diventati vere e proprie città, con densità da Striscia di Gaza: 90 mila abitanti per chilometro quadrato), non sono cittadini libanesi ma sono confinati nel limbo degli apolidi. Anche se sono nati qui, hanno vissuto sempre qui, hanno figli a loro volta nati qui. Una situazione almeno paradossale, se considerata in punta di legge. Ma il Libano non ha firmato la Convenzione dell’Onu sui rifugiati del 1951, quindi non è tenuto a rispettare gli obblighi legali nei loro confronti.

I palestinesi vivono così congelati in una duplice discriminazione. Quella economica, perché privi (anzi, mai dotati) di un certo numero di diritti fondamentali: non possono esercitare gran parte delle professioni, non possono frequentare le scuole e le università libanesi,m possono essere assistiti solo dall’Unrwa (l’Agenxia dell’Onu per l’aiuto ai palestinesi, appunto), e così via. E poi quella politica, perché i campi sono guardati come un potenziale focolaio di sovversione e di terrorismo. I “campi profughi”, però, sono ormai così radicati nella realtà del Paese da essersi trasformati in ghetti per gli emarginati più emarginati di loro. In particolare, i lavoratori immigrati dal Bangladesh e dalle Filippine.

Crudeltà? In realtà, la situazione riflette soprattutto il concreto timore che il Paese dei Cedri da sempre nutre nei confronti di questa “invasione” palestinese, così massiccia da alterare la composizione etnico-religiosa, con relativa spartizione degli incarichi di potere (Presidente cristiano, speaker del Parlamento musulmano sciita, capo dell’esercito sunnita ecc. ecc.), che dal dopoguerra bene o male ha tenuto in piedi la situazione. Timore comprensibile se si considera anche che metà dei palestinesi che vivono in Libano ha meno di 18 anni mentre l’età media tra i libanesi è di 30 anni.

Se il 10% palestinese della popolazione è un simile spettro, possiamo ora immaginare che cosa rappresenti, per i libanesi, quel milione e 100 mila profughi arrivati dalla Siria. Oggi, un abitante su quattro del Libano è un siriano.

Se il 10% palestinese della popolazione è un simile spettro, possiamo ora immaginare che cosa rappresenti, per i libanesi, quel milione e 100 mila profughi arrivati dalla Siria. Oggi, un abitante su quattro del Libano è un siriano. Ci sono circa 500 mila ragazzi siriani in età scolare in Libano, il che vuol dire circa il 30% in più di quanti sono gli studenti libanesi. Uno sforzo che il piccolo Paese non poteva affrontare e infatti oggi, secondo molte associazioni umanitarie, più di 200 mila ragazzi siriani non vanno a scuola. Mai, neanche un giorno.

Le stesse organizzazioni puntano il dito contro le norme che il Libano, passata una primo fase di grande disponibilità nel 2011-2013,ha imposto ai profughi siriani per regolamentare la loro presenza nel Paese. Il permesso di residenza è annuale e il rinnovo può avvenire in due modi: o perché il profugo è preso in carico dall’Unhcr o perché è “raccomandato” da uno sponsor libanese. In questo caso bisogna pagare 200 dollari per ogni uomo o donna dai 15 anni in su, cifra quasi proibitiva per gente che, racconta l’Unhcr, nel 70% dei casi vive sotto la soglia della povertà. La sponsorizzazione, come si può capire, è vitale per moltissimi profughi e intorno al loro bisogno è nato un commercio fatto di estorsioni (fino a mille dollari per una sponsorizzazione), ricatti, sfruttamento sul lavoro e in certi casi anche sessuale. In più, le regole sulla residenza bloccano gli spostamenti e rendono quindi ancor più difficile per i profughi la ricerca di un lavoro. Con l’inevitabile conseguenza di creare un vasto vivaio per il lavoro nero.

Anche in questo caso, però, bisognerebbe guardarsi dal lanciare accuse senza sfumature contro i libanesi. A ben vedere, fatte le proporzioni tra le possibilità e le cose fatte, nessun Paese è stato finora generoso come il Libano. Prevale come sempre il timore che i problemi altrui, com’è tradizione (israeliani, palestinesi, siriani di Assad e siriani profughi), si scarichino poi sul Libano e facciano saltare il delicato meccanismo che lo tiene in piedi. Perché poi, in questo elenco, stiamo dimenticando che ci sono anche 80 mila profughi dell’Iraq, da ospitare e in qualche modo assistere. Detta così, è già una cosa drammatica. Ma qui, ormai, nessuno è straniero.

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