Mercoledì 11 gennaio la Corte Costituzionale si è pronunciata sui tre referendum abrogativi proposti dalla Cgil, sostenuti da tre milioni di firme, giudicando inammissibile il quesito che puntava a restaurare una vecchia versione dell’articolo 18 (in tema licenziamenti illegittimi) e dando il via libera agli altri due quesiti, l’uno sull’abolizione dei buoni lavoro (più noti come “voucher”), l’altro sul rafforzamento della solidarietà nella responsabilità contributiva tra committente e appaltatore. Si tratta, a ben vedere, di buoni usati per pagare attività accessorie; hanno un valore nominale di 10 euro (di cui 7,50 netti per il lavoratore e il resto destinato in parte alla contribuzione a favore della gestione separata Inps, in parte in favore dell’Inail e, per una piccolissima percentuale, alla gestione del servizio). Una prestazione di questo tipo è quasi del tutto “isolata”: non rileva per la posizione fiscale del lavoratore né per il computo dell’organico aziendale. Dal 2010 i voucher sono acquistabili in tabaccheria, nelle banche popolari o presso gli uffici postali. Il dibattito è stato rapidamente monopolizzato da una guerriglia intorno al ruolo dei voucher – rapidamente assurti al ruolo di pietra dello scandalo. In sintesi estrema, sono due le posizioni in campo: da un lato, quanti sostengono che lo strumento sia utilizzato impropriamente da committenti senza scrupoli in sostituzione di contratti più stabili, dall’altro, coloro che invocano l’utilità di un meccanismo agile per compensare prestazioni occasionali, altrimenti difficilmente remunerabili (si pensi ai piccoli lavori domestici o agli interventi di manutenzione minuta).
C’è da dire che i numeri pubblicati di recente testimoniano una crescita notevole delle vendite di buoni lavoro (32,3% in più rispetto ai primi dieci mesi del 2015, anno in cui metà di coloro che hanno usato i voucher lo hanno fatto per la prima volta). La lettura di questi dati, tuttavia, offre spazio a diverse interpretazioni. Se è indubbio che ci sia stato un salto evidente “da un uso marginale all’attuale boom” – come scrive l’Inps in un paper pubblicato in ottobre – le ragioni di tale corsa al voucher andrebbero rintracciate in un fenomeno ampio, tendenzialmente irreversibile, quello della “casualizzazione” del lavoro e alla “re-internalizzazione” di alcune prestazioni. Non si tratta, in verità, di un’anomalia italiana, viceversa le organizzazioni internazionali che studiano queste trasformazioni hanno da tempo segnalato una parcellizzazione delle relazioni lavorative, rischio endemico a molti settori produttivi, specie quelli in cui si fa ricorso a prestazioni a basso valore aggiunto. A questo fenomeno è ascrivibile anche la cosiddetta gig-economy che, troppo spesso, viene erroneamente intesa come un mondo a parte (basti pensare che, in Francia, il termine casualizzazione è sovente tradotto come “uberisation”). Il lavoro sulle piattaforme dell’economia a chiamata vive insomma la stessa metamorfosi che interessa i voucher: da prestazioni isolate per guadagnare una paghetta a nuovo paradigma professionale. Parafrasando un vecchio adagio, si potrebbe quasi ammettere che l’economia dei lavoretti altro non è che “voucher più elettricità”.
Le ragioni di tale corsa al voucher andrebbero rintracciate in un fenomeno ampio, tendenzialmente irreversibile, quello della “casualizzazione” del lavoro e alla “re-internalizzazione” di alcune prestazioni
Per questo, anziché bisticciare sui buoni lavoro, sarebbe più interessante approfondire lo stato di salute della famiglia allargata dei lavori non standard. I report più recenti (quello dell’Ilo risale allo scorso novembre) analizzano con lucidità una situazione piuttosto consolidata: i lavori atipici, specie in certi settori e per alcuni tipi di lavoratori, rischiano di diventare “the new normal”, possono garantire l’accesso al mercato del lavoro a gruppi tradizionalmente esclusi e offrire schemi molto flessibili alle due parti contrattuali. Tuttavia, si prestano spesso a gravi abusi e finiscono per determinare insicurezza sociale. Progressivamente, il ruolo del rapporto di lavoro per come lo si è inteso finora (subordinato, a tempo pieno e prolungato), volto a fornire stabilità di occupazione e reddito, in cambio di “obbedienza” alle direttive aziendali e “fedeltà” al proprio datore di lavoro, subisce una forte erosione, probabilmente irrecuperabile. La terziarizzazione dell’economia, unita al progresso tecnologico e alla pressione della competizione su scala globale, sta ridisegnando i contorni del mondo del lavoro.
A queste condizioni sistemiche il legislatore ha reagito in modo intermittente, talvolta in preda ad istinti di deregulation, più spesso introducendo incentivi distorti. In generale, sono mancate policy in grado di abilitare un ecosistema equo, semplice e accessibile tanto per i lavoratori quanto per le imprese. Detto altrimenti, i voucher altro non sono che il sintomo di un malanno cronico; per questo prima di affossarli o glorificarli bisognerebbe giudicarne l’utilità (intesa come efficacia): sono coerenti con l’obiettivo per cui li si è disegnati, vale a dire compensare lavoretti saltuari, come le ripetizioni o le pulizie? Riescono davvero a comprimere gli spazi in cui prolifera il sommerso? Oppure c’è il rischio che, pur in presenza di un sistema rinforzato di tracciabilità e ispezione, nell’uso comune abbiano finito per rappresentare uno scudo legale per imprenditori dediti al nero? Non esistono risposte definitive. In attesa della fissazione della data del referendum, si può cogliere questa finestra di opportunità per alzare lo sguardo, concentrando gli sforzi sull’analisi di piste di sviluppo del futuro del lavoro.
Per diradare la foschia, val la pena ripercorrere rapidamente la storia – tutto sommato breve – dei buoni lavoro e fare i conti più da vicino con i dati da poco rilasciati. Una prima precisazione è necessaria: per quanto il quesito referendario intervenga, cancellandoli, sugli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 81 del 2015, un pezzo del più noto Jobs Act, i voucher nascono nel 2003 ed entrano in funzione cinque anni più tardi. È tuttavia con la legge Fornero che lo strumento contrattuale è stato largamente liberalizzato: l’intervento del 2012 ha esteso il novero dei lavoratori che possono essere pagati con i voucher e ha escluso il riferimento alla occasionalità della prestazione. Oggi vi si può fare ricorso in qualsiasi settore e con qualsiasi categoria di lavoratore. Da ultimo, il legislatore del 2015 ha innalzato il tetto di guadagni da voucher cumulabili in un anno da 5mila a 7mila euro: difficile attribuire a tale intervento conseguenze dirette nella diffusione di questo modello. D’altro canto, negli ultimi mesi, si è tentato di disegnare un sistema più efficace di controlli. L’assunto di base è presto detto: con l’introduzione di barriere di natura burocratica si è pensato di responsabilizzare i committenti che vi fanno ricorso genuinamente, scoraggiando e – ove necessario – sanzionando l’utilizzo disinvolto o illecito dei voucher.
I cambiamenti nel mondo del lavoro sono stati sistemici. Eppure il legislatore ha reagito in modo intermittente, talvolta in preda ad istinti di deregulation, più spesso introducendo incentivi distorti
Quanto invece ai numeri, la nota trimestrale congiunta sulle tendenze dell’occupazione firmata da ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Istat, Inps e Inail (si tratta di un report che, per la prima volta, incrocia i dati e le rilevazioni degli enti che si occupano di politiche del lavoro) ha contribuito a definire i contorni del fenomeno: nel 2015 sono stati riscossi quasi 88 milioni di voucher, pari al 0,23% del totale del costo del lavoro in Italia. Roba da poco? Non esattamente, dal momento che tale calcolo “sottostima” il versamento contributivo, molto ridotto rispetto a quello del lavoro subordinato. Detto altrimenti: siamo alle prese con un fenomeno probabilmente più vasto di quel che appare. Viene il sospetto anche a considerare le regioni che dichiarano il maggior numero di buoni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Toscana): e altrove? Qualcosa oltretutto non torna. Approfondendo l’identità degli erogatori e dei percettori di voucher, emerge un discostamento dal paradigma classico del lavoro accessorio. Innanzitutto, i buoni non stanno fungendo da strumento di pagamento “al dettaglio”, tant’è vero che non vi fanno ricorso le famiglie ma, in larga parte, le imprese, soprattutto nei settori alberghiero, commercio e ristorazione, così come nell’industria e nel terziario. Persino alcune amministrazioni pubbliche locali ne hanno acquistato ingenti quantitativi, in un caso per promuovere un piano di manutenzione del patrimonio (è il caso – non isolato – del Comune di Napoli, apertamente stigmatizzato); altrove si sono banditi posti per ragionieri o mediatori linguistici “voucherizzati”.
Peggio ancora, spesso (una volta su quattro, a detta dell’Inps) tra prestatore e committente, nel corso dello stesso anno, si realizza la commistione con un rapporto di lavoro più stabile (dipendente a termine): tale indizio fa ipotizzare che, in certi casi, si sia in presenza di un contratto di lavoro subordinato mascherato, vale a dire inquadrato in modo improprio e mal retribuito. Più di recente, anche per via dell’accresciuta attenzione sul tema, è emerso come questo schema contrattuale sia usato per “salvare” rapporti fuori dalla legalità: in particolare, committenti spregiudicati potrebbero spingersi a pagare un’ora di lavoro con i voucher e il restante monte orario in contanti o, addirittura, una giornata con i voucher e il resto in nero (è quello che emerge, ad esempio, dal terzo rapporto Uil, pubblicato meno di un mese fa). È chiaro che i lavoratori pagati con voucher talvolta non svolgono queste attività a titolo accessorio – per integrare il reddito o per ovviare a momenti di inattività legati ad ammortizzatori sociali, spesso si tratta dell’unica o della principale fonte di reddito per precari, giovani e donne di mezza età: una stortura evidente.
Nel 2015 sono stati riscossi quasi 88 milioni di voucher, pari al 0,23% del totale del costo del lavoro in Italia. Roba da poco? No, perché siamo alle prese con un fenomeno più vasto di quel che appare. Committenti spregiudicati potrebbero spingersi a pagare un’ora di lavoro con i voucher e il restante monte orario in contanti. O, addirittura, una giornata con i voucher e il resto in nero
Neppure gli sforzi recenti destinati a tracciare con più trasparenza l’utilizzo dei buoni (oggi le giornate e la fascia oraria devono essere comunicate per sms alla direzione territoriale del lavoro) paiono aver ovviato a queste irregolarità. Alcune fonti del ministero giudicano problematica la stessa attività ispettiva: i controlli dovrebbero “piombare” in azienda in un’ora non segnalata e scoprire al lavoro un percettore di voucher non dichiarato. Le stesse sanzioni, piuttosto esigue, fanno sì che correre un rischio del genere sia complessivamente conveniente: la qual cosa apre a dubbi intorno alla concorrenza sleale posta in atto da certe imprese. In sintesi, la lettura dei dati conferma la convinzione che lo strumento del voucher sia stato (fra)inteso come soluzione per l’abbattimento dei costi retributivi o contributivi del lavoro. Di recente, anche Tito Boeri, economista a capo dell’Inps, ha invocato dei “correttivi” volti a contrastare la tossicità di tale strumento. Basti pensare che, prima della liberalizzazione, l’utilizzo era limitato ai pensionati e ai percettori di sostegno al reddito (disoccupati e cassintegrati, ad esempio), né si dava possibilità di farvi ricorso a alle imprese e alla pubblica amministrazione. Si potrebbe ritornare a questa dimensione, per esempio.
C’è infatti il rischio che la domanda di prestazioni accessorie comprima il nero, da un lato, ma apra un mercato accidentato, zeppo di piccoli lavoretti pagati male. In più, chi sostiene che – in assenza di strumenti come i voucher – l’incidenza del nero sarebbe molto più ampia pecca di ipocrisia e fa un torto alle aziende virtuose, quasi che la lotta all’illecito possa essere scaricata sui lavoratori a voucher, mentre le imprese che violano la legge devono essere tollerate o, addirittura, comprese. Viene infine il dubbio che chi fa il nero e immagina di restare impunito continuerà a farlo comunque: perché mai dovrebbe ottemperare ai voucher, specie se i limiti, i controlli e le sanzioni sono effettivi? In ogni caso, il dibattito è avvelenato da bruschi tentativi di generalizzare o – peggio – dalla velleità di derivare leggi universali da osservazioni parziali. Lo studio Inps ha chiarito in modo impeccabile lo spaccato italiano: il 65% dei committenti utilizza il lavoro accessorio in modo marginale, vale a dire pochi lavoratori (fino a 5) pagati poco (al massimo 70 voucher); un committente su cinque fa un uso intensivo e selettivo del lavoro accessorio (fino a 5 prestatori d’opera, pagati più della media). L’11% dei committenti fa un uso ampio del lavoro accessorio: molti lavoratori pagati poco. Il restante 3% fa un uso notevole del lavoro accessorio (più di 5 lavoratori pagati con più di 70 voucher); è a quest’ultima categoria che appartiene la quasi totalità dei grandi committenti.
C’è il rischio che la domanda di prestazioni accessorie comprima il nero, da un lato, ma apra un mercato accidentato, zeppo di piccoli lavoretti pagati male
In chiave comparata, è importante precisare che, dopo la deregolamentazione, i voucher nostrani non possono essere equiparati ai voucher francesi o belgi (percepibili solo nei casi di lavori domestici o di assistenza ad anziani e bambini). Né si possono fare parallelismi con i mini-jobs à la tedesca che maturano ferie, malattia e sono protetti contro licenziamenti. Se c’è un modello affine in giro per il mondo è quello degli zero hours contract (ZHC) diffusi nel Regno Unito. Si tratta di strumenti contrattuali usati per inquadrare prestazioni accessorie o occasionali, “pezzi di lavoro” per usare l’espressione del governo britannico. I lavoratori “a zero ore” sono chiamati giusto all’occorrenza, solo se necessario, e possono rifiutare la commissione, in più, godono del diritto alle ferie e al salario minimo nazionale. Lo schema è diffuso nei settori della ristorazione, dell’assistenza e del turismo. Le cronache recenti hanno descritto una situazione emergenziale: molti giovani reclutati a zero ore si troverebbero nella condizione di non potersi permettere un tetto, secondo lo studio di un’organizzazione di beneficenza. Colpa dell’eterogenesi dei fini che spesso dirotta policy mal congegnate su binari morti. Gli ZHC vengono spesso rappresentati come una formula “a buon mercato” per momenti introduttivi al mercato del lavoro e, in alcuni casi limite, diventano l’inquadramento preferito, scaricando così tutti gli oneri e le insicurezze in capo ai prestatori. Nel 2015 il governo britannico ha iniziato a porre rimedio ai casi più gravi di abuso, vietando le clausole di esclusiva – che legano i lavoratori allo stesso committente – in modo da offrire più libertà e concorrenza.
In Italia non siamo ancora arrivati a tanto, ma lo stesso ente di previdenza – di certo non uso a iperboli – ha definito i voucher la punta di un iceberg sotto cui si nascoste un “nero” di proporzioni ingenti. C’è quindi bisogno di ricalibrare il focus del confronto, e di chiedersi se non si rischi di offrire l’ennesima scorciatoia ambigua per carriere lavorative altamente discontinue o a orario ridotto, senza neppure garantire l’opportunità di conversione verso inquadramenti più robusti. Varrebbe forse la pena risparmiare tutte le energie sprecate in tafferugli a sfondo ideologico per concentrarsi sul tentativo di intercettare i mutamenti del mondo del lavoro, evitando di offrire alibi per condotte predatorie e disegnando un quadro normativo ospitale per chi voglia generare opportunità di crescita. Così congegnati, i voucher esistono solo in Italia. Li si può perfezionare: non è uno scandalo. La soluzione all’uso distorto dei buoni lavoro passa proprio per un ripensamento del loro campo di applicazione, riducendo i settori in cui li si impiega e le categorie di lavoratori che ne beneficiano. Se è vero che difficilmente il legislatore nazionale riuscirà ad aggiogare le forze di un’evoluzione in atto nel sistema produttivo, ci si può però sforzare di disegnare regole in grado di evitare la “normalizzazione” del lavoro marginale ad alta volatilità.