Nelle prossime elezioni francesi secondo gli ultimi sondaggi Marine Le Pen dovrebbe arrivare in testa ma poi perdere, anche piuttosto sonoramente, al ballottaggio, ma c’è un segmento di popolazione, uno solo, tra cui invece dovrebbe vincere anche al secondo turno: sono gli operai. E anche tra i disoccupati non se la caverebbe male a dire il vero
È un dato che i commentatori di cose politiche non mancano di segnalare e commentare: l’internazionale sovranista che chiede tra le altre cose l’uscita dall’euro è più votata proprio dai più poveri, chi è senza lavoro o ha bassi redditi e salari.
È paradossale, perchè sono proprio costoro che pagherebbero più cara la disgregazione della moneta unica e il ritorno alle divise nazionali, con conseguente svalutazione di queste quasi ovunque tranne che in Germania, certamente in Italia.
Nel momento in cui con la fine dell’euro tornassimo a una lira svalutata vedremmo tipicamente delle conseguenze economiche più o meno immediate. Una di queste sarebbe l’aumento dei prezzi, come è ovvio. I sovranisti sostengono che questo inconveniente sarebbe di poco conto e sarebbe compensato dalla crescita delle esportazioni.
Tuttavia anche facendo finta di credere che sia così, un effetto neutro a livello generale non ne comporterebbe certamente uno analogo per ogni singolo segmento della popolazione. Tutt’altro.
La svalutazione colpisce diversi settori in modo molto diseguale: non può che essere così se, come gli economisti hanno osservato in diversi casi, per esempio nel caso ucraino e messicano, e come appare evidente anche a livello empirico, i diversi segmenti di reddito hanno modelli di consumo molto diversi.
L’aumento dei prezzi successivo ad una svalutazione della rediviva lira sarebbe decisamente maggiore proprio nei prodotti più consumati dai più poveri. Tra l’altro proprio i prodotti low-cost, quelli totalmente provenienti dall’estero, con margini ridottissimi che si devono adattare all’andamento dei costi, subirebbero aumenti maggiori di prezzo
I più poveri spendono relativamente più dei ricchi in beni materiali, e in particolare in beni commerciabili “tradable” (come il cibo), mentre i più ricchi in beni non soggetti a commercio, “non-tradable”, di fatto soprattutto i servizi personali. Non solo, all’interno dello stesso settore (per esempio abbigliamento) le famiglie a basso reddito tendono a privilegiare il prodotto di minore qualità e valore aggiunto, di quelli che si ritrovano magari in catene low cost, mentre i nuclei ad alto reddito acquistano più proporzionalmente il prodotto della gamma più alta.
Ebbene, l’aumento dei prezzi successivo ad una svalutazione della rediviva lira sarebbe decisamente maggiore proprio nei prodotti più consumati dai più poveri, ovvero in quelli “tradable”, che vengono importati, come l’olio d’oliva (in cui non siamo autosufficienti) rispetto ai servizi interni che non risentono allo stesso modo delle conseguenze del cambio di valore della moneta, come una camera d’albergo o il parrucchiere.
Inoltre proprio i prodotti low-cost, quelli totalmente provenienti dall’estero, con margini ridottissimi che si devono adattare all’andamento dei costi, subirebbero aumenti maggiori di prezzo rispetto a quelli fabbricati in Italia, crescerebbero di più i prezzi di H&M che quelli Brunello Cucinelli, insomma.
Era stato calcolato per esempio in Messico nei due anni dopo la crisi finanziaria degli anni ‘90 che il costo della vita era cresciuto del 95% circa per le famiglie più povere, e del 76% per i più ricchi.
Naturalmente l’Italia non è il Messico, ma nel modello di consumo diversificato in base al reddito ci ritroviamo in pieno.
Il nostro Paese ha poi altre debolezze che non si possono non considerare, e che ancora una volta colpiscono i poveri più che proporzionalmente.
Siamo il tipico esempio di una economia aperta e ormai piccola rispetto al panorama mondiale (abbiamo lo stesso PIL di Texas e North Carolina), che dovrebbe affrontare un nuovo mondo fatto di dazi e monete fluttuanti senza ancoraggi dopo avere per 20 anni vissuto in un ambito completamente diverso che ha plasmato la nostra economia: abbiamo, giustamente peraltro, lasciato trasmigrare alcune produzioni a basso valore aggiunto all’estero, laddove è più conveniente produrle e da dove le si può poi importare, trattenendo quelle con margine maggiore.
Il nostro panorama industriale è cambiato, non produciamo di tutto, come un grande Paese tradizionalmente “sovrano”
La crisi economica ha fatto il resto, con un crollo della produzione industriale, molto maggiore di quella del resto dei Paesi dell’Euro, e in cui siamo darwinisticamente sono state colpite meno solo le produzioni ad alta tecnologia rispetto alle altre
Per esempio dal 2001 è cresciuta la produzione nel settore farmaceutico, ma è crollata del 76,5% quella del settore dei macchinari elettrici, e del 53,3% quella dell’elettronica.
E tuttavia si tratta di prodotti che continuiamo a consumare.
Dai giocattoli alle lampadine. E sono proprio i più poveri coloro che dedicano una percentuale maggiore del proprio reddito al consumo di prodotti semplici e a basso valore aggiunto.
Ora li importiamo dall’Asia. E continueremmo a importarli anche con la lira, a prezzi più alti, con un impatto maggiore soprattutto su chi ha bassi redditi, lo sappiamo, ma c’è altro: non vi sarà la possibilità, nel breve e medio periodo, questo è il punto fondamentale, di ricominciare a produrli internamente, il crollo non solo della produzione, ma della capacità produttiva è stato enorme, devastante, non si improvvisa dall’oggi al domani la nascita o la ri-nascita di una nuova industria, soprattutto con l’instabilità e la carenza di investimenti che avremmo all’inizio della nuova fase di economia “sovrana”.
Non solo, anche immaginando di vedere solo il lato roseo della svalutazione, l’aumento delle esportazioni e le conseguenze positivo per l’occupazione, ebbene, queste non potranno certo essere spalmate in modo equo, ma ancora una volta sarà premiato chi è già più fortunato.
Ci sarebbe uno spostamento di benessere dai lavoratori più poveri a quelli già più fortunati, per dirla breve, con un incremento della disuguaglianza
Le nostre esportazioni, sebbene meno che quelle di altri Paesi europei, man mano si sono spostate, come è naturale, in quei settori più produttivi, a maggiore valore aggiunto, e con margini più alti. Chi lavora in queste aziende “eccellenti”? Soprattutto laureati, persone con specializzazioni maggiori, redditi e salari già più alti.
Sarebbero questi segmenti di società a essere premiati, più di coloro che lavorano per aziende che producono per il settore interno, ci sarebbe uno spostamento di benessere dai lavoratori più poveri a quelli già più fortunati, per dirla breve, con un incremento della disuguaglianza.
Ma attenzione, anche nel settore dell’export, noi, piccolo Paese senza materie prime, che non siamo sulla frontiera tecnologica dove nascono le innovazioni, come ora e più di ora saremmo dipendenti dal mercato internazionale e dai suoi capricci, le sue fluttuazioni, saremmo “price-taking”, ovvero non decideremmo noi i prezzi, ma li subiremmo, e alla fine con shock esterni a fronte dei quali la manipolazione dei cambi sarebbe inutile, l’unica risorsa rimarrebbe, che lo vogliamo o no, la produttività e l‘innovazione, ancora una volta.